Riportiamo integralmente la traduzione dell’Epistola di Orazio Flacco ai Pisoni integrata con le note siglate da Carlo Paolino al fine di mettere a disposizione dei lettori un esempio dell’arte traduttoria e delle considerazioni critiche e filologiche che caratterizzano tutta l’opera dell’Autore Papasiderese.
EPISTOLA DI ORAZIO FLACCO AI PISONI
ossia
LIBRO INTORNO ALL’ARTE POETICA
Se mai ad un Pittore venisse il capriccio di attaccare ad una testa umana la cervice(1) di un cavallo, e di penne di varj uccelli(2) adornare le membra prestate da differenti animali, di maniera,(3) che il seno di una vaga donna finisse in un nero, ed orroroso pesce; come potreste voi, o amici, contenere il riso quando foste ammessi ad un simile spettacolo? Fate conto, o Pisoni, che ad un quadro di questa fatta più che simile diverrebbe quel libro, nel quale come tanti sogni d’infermi si vedessero riunite, ed espresse delle idee così vane, e confuse, che né il capo, né i piedi corrispondessero ad un medesimo oggetto. A’Pittori, ed a’Poeti fu sempre egualmente permesso di osare quanto mai lor viene in fantasia.(4) Lo sappiamo: e siccome domandiamo una tal licenza per noi, così vicendevolmente l’accordiamo agli altri.(5) Ma non però in guisa, che le fiere selvagge si uniscano cogli animali placidi, e mansueti, i serpenti colle colombe, gli agnelli colle tigri. Sovente dopo gravi cominciamenti, che ci mettono in grandi aspettazioni, si vede come improntato uno, o un altro pezzo di porpora, che ampiamente risplenda; siccome quando, a cagion di esempio, descrivonsi la boscaglia , e l’ara di Diana; ed un ruscello di acqua, che frettoloso serpeggi per amena campagna; o pure quando si descrive il fiume Reno, o(6) l’arco celeste. Ma nell’occasione, in cui siamo, non avean luogo somiglianti descrizioni: e per avventura tu saprai ben dipingere al naturale(7) un cipresso: Ma questo a che ti giova, se colui, il quale te ne ha pagato il prezzo, desiderava esser dipinto come uno, il quale dopo aver rotto in mare disperando di sua salvezza,(8) ha finalmente la sorte di salvarsi a nuoto? Si è incominciato una grande anfora, come poi col girar della ruota n’è uscito un picciol orcio? Insomma siasi quel, che si voglia, ciò, che tu fai, purché sia semplice, e serbi l’unità. Il più delle volte, o Pisoni, e padre, e figli di un tal padre degni, c’inganniamo sotto la specie, e sembianza di esser ben fatto ciò, che facciamo. Io m’industrio di esser breve, e divengo oscuro: (9)volendo andare appresso alle minuzie, ed a cose di poco momento, mi manca il nerbo, e lo spirito: chi si professa di scriver grande, e sublime, diviene gonfio, ed ampolloso; e chi teme la tempesta, per schivarla rade la terra.(10) Chi brama mutare prodigiosamente una cosa,(11) mostrandola in varj aspetti, dipinge il Delfino tra le selve, e tra le onde il Cignale. In somma il fuggire il vizio ci fa nel vizio cadere, se non si ha l’arte di saperlo fare. Intorno alla sala, e scuola di esercizi gladiatorj di Emilio vi sarà un fabbro degl’infimi, capace di finire le unghie delle sue statue meravigliosamente al naturale, e di fare in esse anche vedere la morbidezza, e pieghevolezza dei capelli;(12) ma riesce poi infelice tutta l’opera, perché non fa bene accozzare insieme, e formare proporzionatamente tutte le sue parti.(13) Ora se io avessi in pensiero di comporre qualche cosa, non vorrei esser più tosto come costui, che esser degno di somma ammirazione per li miei neri occhi, e capelli, ed aver poi un naso assai deforme, e spropositato. Eleggetevi voi, che scrivete una materia proporzionata alle vostre forze;(14) e per lungo tempo considerate che cosa possano gli vostri omeri sostenere, e qual cosa no. A chi si averà scelto un soggetto proporzionato alle sue proprie forze, non potrà mancare né la facondia, né un chiaro metodo di bene ordinarlo.(15) La virtù, e forza dell’ordine, e la sua grazia, e venustà consiste in ciò, se pur non m’inganno, che ora si dicano quelle cose, che là per là debbon dirsi, e molte altre si tralascino di presente, e si differiscano a tempo più opportuno.(16) Chi si prefigge di scrivere un Poema(17) deve avere il senno di ammettere, o rigettare taluni incidenti; e deve anche esser parco, e giudizioso in foggiar nuovi vocaboli. El tuo stile sarà singolare, se un giudizioso concatenamento farà sembrar nuove quelle parole, che son già note, e in uso. Se per sorte fosse necessario additare cose occulte, ed ignote con voci nuove, e recenti, e portasse anche il caso di formarne di quelle, che non furono mai udite dagli antichi grembiulati Ceteghi, ti si accorderà una tale libertà fino a quando da te se ne faccia un uso moderato, e conveniente. E tali parole nuove, e di recente formate avranno credito, e stima se per poco mutate si faccino dai Greci fonti derivare(18). Or per qual ragione toglieranno a Virgilio, e Vario quel dritto, che accordarono a Cecilio, e Plauto? Perché se io posso far nuova incetta, ed acquisto di poche voci, ne sono invidiato, e mal veduto, quando la lingua di Catone, e di Ennio adornò il linguaggio della loro padria, e produsse alla luce nuove denominazioni delle cose? Fu sempre lecito, e sempre lo sarà, di foggiare un nuovo nome, che abbia i caratteri, e le insegne dell’uso presente. Siccome le selve negli scorrevoli anni mutano le loro fronde, producendo le nuove, e gittando a terra le vecchie, così finisce l’età delle parole antiche, e le novelle a guisa de’giovanetti fioriscono, ed acquistano grazia, e vigore. Non solo le cose nostre tutte, ma noi medesimi siamo soggetti alla morte, o sia, che il mare rinchiuso tra la terra ricoveri,(19) e difenda le armate navali dalle tempeste; opera veramente reale; o che la palude sterile da lungo tempo, ed atta ai remi, siasi disseccata, e ridotta alla stato di ammettere il pesante aratro, ed alimentare le città vicine; o che il fiume distolto dall’antico suo corso tanto nocivo alle campagne, ed a’prodotti, ne avesse preso un altro migliore(20). In somma morranno, e periranno tutte le opere dei mortali, non che starà sempre in piedi la medesima stima, e la medesima grazia, e vivacità delle lingue(21). Molte voci già spente, e che ora sono fuori dell’uso, rinasceranno; e caderanno in disuso quelle, che ora sono in voga, se così vorrà l’uso, presso del quale si è l’arbitrio, il diritto, e la norma del parlare. Con qual sorta di versi possan descriversi le gesta dei Re, dei gran comandanti, e le funeste guerre, ce lo ha insegnato Omero. L’Elegia co’suoi versi inegualmente uniti servì da principio per trattare le cose tristi, e luttuose; e poscia abbracciò facilmente le cose piacevoli, e di felice successo(22). (23) Chi però sia stato l’autore dei versi Elegiaci, i Grammatici tra di loro ne disputano; né ancora se n’è decisa la lite. Archiloco si armò de’suoi giambi per sfogare la propria rabbia: de’quali poscia servironsi egualmente nella Commedia, che nella Tragedia, come quelli, che sono meglio adattati per li Dialoghi, e che superano gli strepiti del popolo, e quasi fatti a posta per trattare, e rappresentare le cose.(24) La musa insegnò a cantare al suono della lira le lodi degli Dei, e degli Eroi delli Dei figliuoli(25); a celebrare le vittorie degli Atleti, e dei Cavalli vittoriosi alla corsa; (26) a dire le amorose sollecitudini de’giovani, e comporre le canzoni di Bacco. Or se io non sappia, e non possa mantenere si fatti caratteri, ed usar come si deve di quei colori, che tali opere richieggono, come potrò chiamarmi poeta? Perché per un vergognoso rossore contentarmi anzi ignorargli, che apprendergli? La Commedia non richiede di essere rappresentata con versi nobili, e pomposi, propri della Tragedia; né la tragica, ed orrorosa cena di Tieste con versi semplici, e naturali, quali sono quelli della Commedia. (27) Debbano questi due soggetti diversi mantenere ciascuno decentemente quel luogo, che gli è in sorte toccato. Talvolta però anche la Commedia innalza la voce, e Cremete adirato gravemente contrasta, e fa il diavolo, e peggio; e’l personaggio tragico si duole con un dire umile, e basso. Teleso, e Peleo, amendue esuli, e mendici, lasciano il parlar gonfio, ed ampolloso, e le maestrevoli parole, mentre cercano co’loro lamenti toccar l’animo degli spettatori. Non basta, che i Poemi sian belli; bisogna, che siano anche dolci, e dilettevoli, e tirino gli animi degli ascoltatori, ovunque essi vogliono. Siccome gli umani volti ridono con coloro, che ridono, così piangono con coloro, che piangono. Se vuoi ,ch’io pianga, bisogna, che tu prima ti addolori, e pianghi: in tal caso Teleso, o Peleo mi muoveranno a compassione le tue disgrazie; (28) ma se voi farete male la vostra parte, allor’accade, ch’io mi metterò a ridere, o a sonnecchiare. Al volto mesto, e malinconico convengonsi parole tristi, e lamentevoli: all’adirato parole piene di minacce: all’ilare, e giocoso parole lubriche, e lascive: al severo, e grave parole serie, e piene di maestà. (29) Imperciocché la natura prima di ogni altro ci forma coll’intima disposizione a’vari stati della fortuna: ed è quella, (30) che ci ajuta, o ci spinge all’ira; o pure con grave tristezza ci abbatte a terra, e ci angoscia. Indi manifesta i moti, e le passioni dell’animo colla lingua, che n’è l’interprete. Se le parole discordano dallo stato della fortuna di chi parla, alzeranno smoderatamente le risa ed i cavalieri, e la plebe. Vi sarà molta differenza, se parli un Dio, o pure un Eroe; un maturo, ed assennato vecchio, o pure un giovinetto nel fior degli anni, a cui bolle il sangue;(31) se una potente matrona, o un’accorta nutrice; se un mercadante, che gira, o un coltivatore di un verde prato; se uno della Colchide, o pure dell’Assiria; se uno cresciuto in Tebe, o pure in Argo. Tu che scrivi, o segui la comune voce, e fama, o fingi cose congruenti. (32) Se per avventura tu rappresenti l’onorato Achille, si faccia indefesso, iracondo, inesorabile, veemente, che non riconosca i diritti della natura, che tutto arroga colle armi. Sia Medea barbara, ed inflessibile. Ino piangente; perfida Issione; Io raminga, ed errante; Oreste agitato da smanie, e da tristezze. Se mai ti rischi a metter qualche nuovo soggetto su la Scena , e formare un novello personaggio, si mantenghi fino all’ultimo quale comparve da principio, e sia sempre costante, ed uniforme. Egli è però difficile di esporre con la conveniente proprietà le cose comuni a tutti per l’invenzione: e molto meglio potrai ricavare dai canti di Omero il soggetto della tua Commedia, che essere il primo ad inventare, e produrre soggetti ignoti, e non ancora trattati. I soggetti pubblici, o sian noti agli altri tu potrai rendergli propri, se non avrai la viltà di seguire il triviale intreccio dell’autore, né qual fido interprete cercherai volgergli parola per parola; e se imitando non ti riduchi a tali strettezze, che poi non possi uscirne senza vergogna, e senza violare le leggi del tuo poema. Né incomincerai la tua opera come cominciò una volta un ciclico Scrittore. “ Canto la nobil guerra, e la fortuna di Priamo…” Qual cosa produrrà cotesto scrittore corrispondente ad una promessa cotanto magnifica? Partoriranno i monti, e ne nascerà un ridicol topo. Quanto meglio quest’altro, che nulla intraprenda da inetto? “ Dimmi, o Musa, l’Eroe, che, presa Troia, di più genti città vidde, e costumi…” (33) Non pensa ritrar fumo dalla luce, ma la luce dal fumo, affinché poi possa esporre sorprendenti meraviglie, come descrivendo Antifate, Scilla, Ciclope, e Cariddi; ne comincia a narrare il ritorno di Diomede dalla morte di Meleagro, né la guerra di Troja dalle due uova di Leda.(34) Sempre si affretta verso la fine; e tira di botto l’uditore in mezzo de’fatti, come se gli fossero di anzi noti; e lascia di trattar quelle cose, che sembran non poter dare gran lustro, ed ornamento; e mentisce in guisa, così tra mischia le cose vere colle false, che il mezzo non sia discordante dal principio, e dalla fine. Or tu ascolta quel, che il popolo meco da te desidera. Se brami, che gli uditori si trattengano per farti applauso fino a che si cali il Sipario, e stiansi fermi a sedere in fino a che il Coro dica, fate applauso; si debbono da te notare i costumi di ciascuna età, e così formare, ed attribuire ad ognuno i caratteri propri, e convenienti (35) ai loro mutabili anni, ed inclinazioni. Il ragazzo, che ha già cominciato a parlare, ed a camminare con sicurezza, ha gran desiderio di giocare co’suoi uguali; e si adira, e si placa senza considerazione, e si muta da un momento all’altro. Il giovanetto, che non ha ancora messa la barba, libero finalmente dall’ajo, si diletta de’cavalli, de’cani, e dell’aprica campagna; è molle come una cera così, che piega facilmente al vizio; aspro e ritroso con coloro, che l’ammoniscono; tardo a provedere ciò, che gli torna conto; sprecone; altiero, e pien di cupidigia, e velocissimo ad abbandonare ciò, che gli fosse stato a grado. Tutto all’opposto l’animo, e l’età virile va in traccia di ricchezze, e di farsi amici; è tutto intento agli onor; si guarda di commetter cosa, di cui indi a poco abbiasi a pentire. Molti incomodi assediano il vecchio, o perché cerca di acquistare, e dopo si astiene da quello, che ha già acquistato, e teme di farne uso; o perché freddo, e timido amministra tutte le cose. Egli indugia, e procrastina sempre; è tardo a concepire delle speranze; pigro ed inerte, avido del futuro, difficile, querulo, e pieno di lui, lodatore del tempo passato ne’suoi anni teneri; censore, e correttore dei giovani. Molti comodi, e vantaggi ci apportano gli anni, che vengono, e molti ce ne tolgono quei, che retrocedono. Perché dunque non accada di darsi le parti di un vecchio ai giovani, e quello di un uomo fatto ad un ragazzo, bisogna sempre fermarsi a considerare quelle cose, che necessariamente vanno unite con quell’età, e se le sono convenienti. Le cose si trattano sulla Scena o con rappresentarle, o con narrarle. E’ certo, che quanto si apprende per le orecchie fa nei nostri animi minore impressione di quello, ch’è sottoposto a fedeli occhi, e che lo spettatore da se stesso apprende. Ma non però porrai sulla scena quelle cose, che debbon trattarsi dentro; e sottrarrai alla veduta molte cose, le quali possono indi rappresentarsi con un fedele, e vivo racconto. Non uccida perciò Medea i suoi figli in presenza del popolo; né l’abbominevole Atreo cuocia a vista di tutti le umane interiora; né Progne si trasmuti in uccello, né Cadmo in serpente. Qualunque cosa così mi mostrerai, l’odio, e non la credo. La Commedia , che si vuole rappresentare più volte, ed essere acclamata, e desiderata, non debbe essere né più, né meno di cinque atti: né vi si faccia intervenire alcun Dio, se nodo tale non si presenta, che ne richiegga il favore, e l’aiuto; né in una scena parli di molto una quarta persona. Il Coro deve fare le parti dell’attore, e l’ufficio di un solo personaggio; negl’intermezzi niente canti, che non sia al soggetto conveniente, e proprio; protegga, e difenda sempre le persone da bene; sostenga gl’interessi degli amici; appaci, e calmi que’, che sono adirati; ami coloro, che hanno in orrore i delitti; lodi le mense sobrie, e parche; la salutare giustizia, e le leggi, ed esulti veder sempre (36) per la pace aperte le porte; tenga segrete le cose confidategli; e supplichi, e scongiuri li Dei, che torni la fortuna agli umili, e buoni, e fugga dai superbi, e cattivi. La tibia, non come quella di oggidì attorniata, ed ornata di Oricalco, ed emulatrice della tromba; ma era tenue e semplice, e con pochi forami, e buona per quelli Cori di tragedie, e per far sentire il suono in quei sedili non molto affollati di persone; dove certamente si univa un popolo, che potea numerarsi perché ancora piccolo, frugale, temperante, e pieno di saviezza, e di verecondia. Ma dopo che vittorioso cominciò a dilatare i suoi campi, e la città ad essere contenuta in un più ampio giro di mura, ed a placare il suo genio in ciascun giorno festivo col vino, e coi divertimenti senza alcun ritegno, s’introdusse la licenziosità ne’versi, e nella Musica. Imperciocchè qual saviezza mai potea aspettarsi (37) da ignoranti villani, ed oziosi, confusi con de’civili, ed urbani, e dai brutali cogli onesti? Quindi avvenne, che i suonatori della tibia alla loro arte prima casta, e sonora aggiunsero i lascivi movimenti, e trascinarono sulle scene una lunga veste. Del pari si aumentarono le armoniche voci alla severa lira de’Greci; e senza consiglio s’introdusse nella poesia precipitosamente un’insolita dicitura; tanto vero, che o nel voler dare degli utili avvisi, o predire il futuro, lo stile non differì punto dagli Oracoli di Delfo. Il poeta tragico, il quale era entrato in briga per la vile ricompensa di un irco, fe comparire un un campestre Coro di Satiri, e da aspro, e severo, ch’egli era, tentò di rappresentare nelle tragedie piacevoli scherzi, e motteggi, serbando tuttavia la gravità della medesima, a cagione, che doveano con qualche straordinaria piacevolezza, e coll’allettamento di qualche novità intrattenersi gli spettatori, che ne andavano nel teatro dopo fatti i sacrifici, e dopo essersi avvinacciati, e perciò capaci di qualunque eccesso. Niente di meno ci converrà approvare coteste tragedie deridenti, e mordaci, e di convertire il serio nel giocoso, ma in guisa, che qualunque Deità, o qualunque Eroe vi si farà intervenire vestito di regal porpora, ed oro, non si faccia poi parlare come nelle più vili taverne; o in una maniera così elevata, e sublime, che vada a perdersi tra le nubi, e svanire. Alla tragedia non convengono i versi che non abbiano una maestosa dignità; come non converrebbe a una madrona di esser poco vereconda allorché in giorni festivi le fosse imposto di ballare tra protervi satiri. Se io, o Pisoni, volessi scrivere opere satiriche, non amerei solo l’ingenuità, ed esprimerei ciascuna cosa col suo proprio nome; né tanto declinerei dal nobile stile della tragedia, che non si osservasse differenza alcuna tra ciò, che dicono nella commedia Davo, e l’audace Pitia, che si approfitta del danaro scroccato a Simone, e ciò, che potrebbe dire Sileno governatore, e fedele compagno di Bacco. Di più riceverei sempre da qualche nota istoria il soggetto delle mie composizioni satiriche, e in modo, che ciascuno si credesse capacissimo di fare lo stesso, e non ne conoscesse la difficoltà, e quanto bisogna sudare, se non dopo avere avuta in vano l’arditezza d’intraprenderlo: (38) tanto han di forza l’ordine, e la connessione degl’incidenti; e tanto i soggetti conosciuti sono capaci, e suscettibili di ornamenti, e vaghezze. E ritornando ai Satiri, a parer mio, i boscherecci Fauni non debbono affatto dir versi teneri ed amorosi, come se fossero tanti giovanetti nati nelle strada, e nei Fori di Roma; né profferire oscenità, ed ignominiose parole; poiché se ne disgustano egualmente i Cavalieri, che i Senatori, e tutte le oneste persone, che punto non approvano quelle cose, le quali riportano l’applauso del vile popolaccio. Una sillaba lunga dopo una breve appellasi giambo, ch’è un piede sollecito, e celere; il che ha fatto anche dare il nome di trimetri a’versi giambici, non ostante, ch’eglino siano di sei piedi, tutti simili tra di loro dal primo fino all’ultimo. Non è gran tempo da che i giambi hanno a se adottati li gravi spondei, a condizione però, ch’essi non avrebbon mai ceduto né il secondo luogo, né il quarto, ch’eglino han voluto ritener per se. (39) Or simile tessitura si trova molto di rado ne’ trimetri cotanto famosi di Accio, e di Ennio; i quali versi così pesanti, e che camminano con tanto stento, fan chiaramente vedere, che questi Poeti, o per troppa fretta, abbiano defraudate le loro opere della cura necessaria, o ciò, che sarebbe più vergognoso, che abbiano errato per l’ignoranza dell’arte. (40) Non tutti posson giudicare del numero, e della cadenza dei versi; e si è avuta dai Romani su di ciò una indegna condiscendenza, e compatimento per gli Poeti. Ciò posto, dovrò io dunque scrivere alla rinfusa, e senza servare veruna regola? O dovrò anzi credere, che tutti osservano i miei difetti, e starmene con tutto ciò sicuro nella speranza, che mi saranno perdonati? In somma se ho schivato lo biasimo, non ho meritato lode certamente. Voi, o miei Pisoni, abbiatevi sempre tra le mani, e leggete giorno, e notte gli esemplari de’Greci. Mi direte, i nostri antenati lodaron tanto i numeri, e le cadenze di Plauto, e le sue argute facezie; ma con troppa sofferenza lodaron così gli uni, che le altre, per non dire, che con troppa stoltezza l’ammirarono; se è pur vero, che voi, ed io sappiamo distinguere i motteggi incivili e grossolani dalle lepidezze; e colle dita, e coll’orecchio discernere il vero suono, e la giusta cadenza dei versi. Dicesi, che Tespi avesse inventato una specie di Tragedia prima di lui ignota alli Greci, e che portasse sopr’a’carri gli attori de’suoi Poemi, i quali gli cantassero, e rappresentassero col volto tinto di feccia. Che dopo costui Eschilo fosse stato l’inventore della maschera, e (41) degli abiti decorosi, e propri; che avesse fatto costruire (42) dei teatri sopra piccoli travi, ed insegnata la maniera magnifica di dire, ed a marciare su la scena coi coturni. A queste tragedie di Tespi, e di Eschilo succedè l’antica Commedia con felice evento; ma la soverchia libertà, che si diedero, degenerò tosto in una illimitata licenziosità, che meritò il freno delle Leggi. Si fece adunque, e si accettò la legge; e il Coro, toltosigli il dritto di poter dir male, ed offendere, vergognosamente si tacque. Niuna cosa lasciarono intentata i nostri poeti; né fu di poco momento l’onore, che meritarono, quando ebbero il coraggio di lasciar le tracce de’Greci, e celebrare le gesta della propria patria, tanto ne’Drammi pretestati , che ne’Togati. Né sarebbe il Lazio più potente per lo valore, e per l’arte della guerra, che per la lingua, se non dispiacesse a ciascuno dei nostri Poeti la fatica di limare le loro opere. Voi, o Pisoni, che discendete (43) dall’antico sangue di Numa Pompilio, non approvate quei carmi, e quelle composizioni, che non siansi lungo tempo tenute sotto chiavi per correggersi, ed emendarsi, e che non sian passate per dieci volte almeno sotto la trafila della più sana critica. Come Democrito credè, che per la Poesia la naturale inclinazione riesca sempre più, che qualunque studio stentato, ed escluse dal monte Elicona i savj Poeti; così la maggior parte di essi non si tagliano in oggi più le unghie, né si radano la barba; van cercando i luoghi solitari; ed evitano di andar ai bagni; poiché essi sono certi di acquistarsi il nome e’l premio di Poeti se non affideranno al barbiere Licino il loro capo, che non potrà mai esser guarito, né pure se adoprassero l’elleboro di tre Anticire. O me folle, che mi purgo dalla bile nell’approssimarsi la primavera! Niun’altro farebbe migliori poemi di me: Ma niente val tanto. Quindi io farò le veci della cote, la quale nonostante, che non sia capace di tagliare, ha nondimeno la forza, e la virtù di aguzzare il ferro. Nulla scrivendo, insegnerò qual sia l’ufficio, e’l dovere di chi scrive: gli mostrerò, in che consistano le ricchezze della Poesia; che alimenta, e forma un poeta; ciò che gli sta bene, e ciò, che no; ed in somma le conseguenze della virtù, e dell’errore. Il sapere si è il principio e’l fonte di scriver bene. Questo sapere potrà prestarlo la filosofia di Socrate: e quando la materia sarà stata da te ben preveduta, e studiata, le parole l’accompagneranno con facilità, e con eloquenza. Chi abbia appreso quali siano i suoi doveri verso la patria, e quali verso gli amici; con quale amore debba amarsi il padre, e con quale il fratello, e l’ospite; qual sia il dovere, e l’ufficio di un Senatore, quale di un Giudice, e quali siano le parti, ed i doveri di un Comandante in guerra, colui certamente sa attribuire, e donare a ciascuno di essi i costumi, ed i caratteri, che loro convengono. Il mio consiglio si è dunque, che un poeta, il quale voglia essere un savio imitatore, tenga di continuo dinanzi agli occhi il modello generale della vita, e dei costumi di tutti, ed indi ricavi le vere espressioni. Talvolta una Commedia fornita di belli sentimenti, ed in cui siano ben dipinti i costumi, ma senz’eleganza e senz’arte, riesce migliore, ed apporta molto maggior divertimento al popolo, che le Commedie, nelle quali si veggono ottimi versi vuoti di cose, e bagattelle armoniose, e sonore. La Musa compartì a’Greci e ingegno, e (44) un parlar rotondo, e maestoso, a Greci, che di niun’altro son avidi, che di lode. Ma la (45) Romana gioventù altro non ha a cuore d’imparare, che per lunghi calcoli a divider in cento parti la libra. Si domanda al Figlio di Albino: (46) se da cinque once si tolga una, che rimane? Presto, dovresti già avere risposto. Alb. Restan quattro. Oraz. Bravo, potresti bene amministrare gli affari della tua casa. E se a cinque ne aggiungete anche tre, quanto sarà la somma? Alb. Sarà sei. Da che questa ruggine, e cupidigia del guadagno avranno una volta infettati gli animi di tutt’i nostri, potremmo noi più sperare, che si faccian versi (47) degni di esser unti coll’oglio di Cedro, e conservati (48) in scrigni di cipresso? Il fine, e la mira dei Poeti si è di giovare, o di piacere; o di rappresentare cose, che dilettino insieme, e siano utili, e confacenti alla vita! Or, qualunque precetto vuoi dare, sia breve, affinché le cose con brevità dette si possano dagli animi docili tosto apprendere, e fedelmente tenere a memoria. Tutto ciò, ch’è superfluo esce dalla mente, come il liquore da un piano vaso. Le cose, le quali si fingono, per apportar piacere, siano prossime, e si somiglino al vero: Né pretenda la Commedia di farsele buono tutto ciò, che vorrebbe: nè estragga dal ventre di una Lamia un ragazzo vivo già divorato: seppiasi solo, che non si avrà mai il suffragio dei Senatori nelle opere, che non hanno la mira d’istruire: tutt’al contrario i Cavalieri non amano (49) i versi seri, e secchi, che nulla contengono di piacevole. Chi dunque voglia ottenere l’applauso, ed i suffragi di tutti, bisogna che mescoli sempre l’utile col dolce, e dilettando i reggitori, gl’istruisca del pari. Le opere così fatte arricchiscono i Librai, oltrepassano i mari, e rendono famoso il nome degli Autori per una lunga serie di anni. Vi sono non pertanto alcuni difetti, a’quali bisogna volere, che si accordi il perdono. Imperciocchè né sempre la medesima corda di un’istrumento rende quel suono, che la mente, e la mano del Sonatore vorrebbe; che anzi molto spesso desiderandosi, un suono grave, ella rende l’acuto; né sempre l’arco ferisce al segno, che si è preso di mira. Con tutto ciò quando in un Carme vi sono molte cose belle, e meravigliose, non debbo io offendermi, e disgustarmi per pochi nevi, che o per incuria, o per poca avvertenza dell’umana mente vi siano caduti. Be dunque qual norma è da tenersi? Ecco: Siccome quando un Copista commette sempre il medesimo errore, tutto che ne sia stato avvertito, non merita alcun perdono; ed un ceterista, il quale erra sempre in toccar la medesima corda, vien messo in derisione; così per me quello scrittore, che molto erra, diviene quel Cherilo, il quale ammiro in due, o tre luoghi della sua opera, e poi me ne rido, e burlo in tutto il rimanente: ed al contrario do nelle smanie quantunque volte sonnecchia il grande Omero. Se non che in una opera lunga si perdona che il sonno ci scappi. La Poesia è come la pittura: questa ti piacerà più se la miri più da vicino; quell’altra poi se più da lontano: una vuol esser guardata nello scuro, un’altra a lume chiaro, perché non teme dell’acuta vista di chi ne deve giudicare: questa ti piacerà di vederla una sola volta; quell’altra ti alletterà se la guarderai ben dieci. O voi, che siete il maggiore dei figli di Pisone, quantunque siate e colli precetti, e coll’esempio da vostro padre ammaestrato al bene, e siate per voi stesso capace di ben condurvi; pure apprendete questa regola, e fatene profitto: cioè, che vi sono certe cose, nelle quali ci si concede d’esser mediocri, e tollerabili; come per cagion d’esempio un Giureconsulto, ed un Avvocato mediocri saran lontani dal valore dell’eloquente Messala, né sapranno quanto Aulo Casselio; ma sono però in istima, e prezzati. Ma ai Poeti non accordarono di esser mediocri né gli uomini, né gli Dei, né le colonne. E siccome tra le grate, e piacevoli mense disgustano, e dispiacciono una discordante sinfonia, le rancide essenze, e gravi odori, ed il papavero mescolato col mele di Sardegna, perché poteano passarsi senza di coteste cose; così la poesia fatta a posta, ed inventata per ricreare gli animi, se per poco si allontana dal sommo, e sublime, si accosta alla più vile bassezza. Chi non sa far d’armi, si astiene da esse, e dal Campo: se non sa giocare alla palla, o al disco, o al troco se ne astiene per timore, che la folta adunanza non alzi impunemente la risa, e non lo fischi. Chi poi non sa far versi, ardisce tuttavia di farne: e come no? Egli dice; io sono libero, ed ingenuo, e quel, che è più, ho la somma del censo, che aver debbono i cavalieri; e sono esente, e scevro da ogni vizio. Or voi badate di non fare, né dire cosa alcuna (50) contro la vostra naturale inclinazione. Voi avete senno, e giudizio a bastanza: che se tuttavia voi farete qualche cosa, non trascurate di sottoporla alle purgate orecchie di Mezio, a quelle di vostro padre, ed alle nostre; né si faccia da voi uscire in pubblico, se non dopo il nono anno. Dai scritti tenuti ancora rinchiusi potrete cassarne a vostro talento quello, che vi aggrada, perché non pubblicato; ma le parole una volta uscite non tornano mai più in bocca. Si disse di Orfeo sagro interprete degli Dei, che ammansisse le tigri, ed i rabbiosi lioni, perché atterrì, ed allontanò dalle stragi, e dalla vita brutale gli uomini allora selvaggi; e di Anfione, fondatore della città di Tebe, che col suono della sua testudine, e co’blandi suoi canti, facesse camminare, e passare i sassi, ov’egli voleva. La sapienza di un tempo era questa: saper discernere le cose pubbliche dalle private; le sagre dalle profane; d’impedire gli uomini (51) dal conversare con qualunque donna, e costituire i regolamenti maritali; di fabbricare delle città; (52) d’incidere sopra tavole, e stabilire delle leggi. E così cominciarono ad onorarsi, ed essere in venerazione i divini Poeti, ed i loro carmi: Dopo questi il famoso Omero, e Tirteo eccitarono coi loro versi i virili animi alle marziali gesta; gli oracoli furono sempre dati in versi; furono additati i precetti naturali, e morali per lo regolamento della vita; e co’versi fu tentato ancora di farsi acquisto della grazia, e del favore dei Re; e si adoperano ancora nei giochi, e negli spettacoli inventati per termine, e ristoro della travagliosa vita: tanto è vero, che non dovete avere a vergogna di esser seguace delle muse dotte nella lira, e del cantore Apollo. Si è da lungo tempo disputato se un lodevole carme nasca dalla natura, o pure dall’arte: ma io nè veggo a che possa valere lo studio, e l’arte senza una felice vena, né un rozzo, e grossolano ingegno diviso dall’arte; tanto l’una cosa richiede l’aiuto dell’altra, e si danno amichevolmente la mano. Chi ha premure di arrivare nella corsa alla desiderata (53) meta, nella sua puerizia soffrì molte fatiche, sudò, e patì gran freddi; si astenne dalle scostumatezze, e dal vino. E il suonatore di flauto, prima di giungere a suonare nelle feste di Apollo Pitio, imparò, e stette sotto la sferza del Maestro. Non basta dunque dire, io compongo meravigliosi Poemi: (54) venga la rogna chi è da sezzo: a me fa vergogna (55)esser lasciato indietro, e il confessare di non sapere ciò, che non appresi giammai. Appunto come il banditore, che raduna, e chiama la turba alla compra delle merci, invita a far lucro sopra di se gli adulatori quel Poeta, il quale è ricco di poderi, e di denari messi in su l’usura. Se poi vi è alcuno di essi, che possa far laute cene, e dar mallevaria per lo miserabile povero, e sottrarlo da’ gravi litigi, in cui trovasi intrigato, sarebbe per me una somma meraviglia, se aver potesse la felicità di distinguere il falso dal vero amico. Voi, o che abbiate donato, o che vogliate donare qualche cosa ad alcuno, guardatevi d’invitarlo, mentre è così pieno d’allegrezza, ad udire i vostri versi; ch’esclamerà, bella! Viva, bene assai: sentendogli mutare di colore; distillerà dagli occhi delle lacrime per la consolazione; tripudierà, percuoterà col piede la terra. Siccome coloro, i quali piangono prezzolati ne’funerali, predicano, e fanno molte cose più di coloro, i quali si dolgono veramente di cuore; così l’adulatore, e chi fa da burla si commuove più di chi loda da vero. Dicesi, che i Principi mettono alla tortura, ed alla prova del vino coloro, i quali vogliono sperimentare se possano esser degni della loro amicizia, facendone lor bere molti bicchieri. Se farete versi, guardatevi dalle adulazioni di coloro, che si risomigliano all’astuta volpe, che lodava il Corvo. Se taluno avesse recitata qualche sua composizione a Quintilio: correggi di grazia, gli diceva, questa, e quest’altra cosa: se gli si fosse risposto di non esser possibile far migliore, per esservisi provato in vano ben due in tre volte, cassa, diceva, e torna a metter sopra l’incudine que’versi, che sono mal formati. Che se poi costui avesse voluto difendere que’tali errori, anziché correggergli, non dicea più quanto fosse stata una sola parola, né si prendeva più alcuna pena in vano, e lo lasciava in piena libertà di esser pago, e contento di se stesso senz’alcun rivale. L’uomo probo, e prudente biasimerà i versi languidi, e bassi; condannerà gli aspri; casserà i rozzi, e mal conci; troncherà tutti gli ornamenti inutili, e vani; vi obbligherà di rischiarare quelli, che sono oscuri, e di toglierne tutte le ambiguità; e noterà tutte quelle cose, che debbon mutarsi. In somma egli sarà un severo Aristarco; né dirà mai, perché ho io a disgustare un amico per piccole bagattelle? Or queste bagattelle faran cadere lo scrittore in più seri mali, quando sarà stato una volta messo in derisione, e malamente appreso. Le persone di senno fuggono, ed hanno in orrore un insano Poeta, come se fosse infettato da perniciosa scabbia, dall’ittirizia, dal fanatismo, e dall’epilessia (56). Che se accade, che mentre egli ne va girando, e rutta i sublimi suoi versi, come un’uccellatore intento ad inseguire i merli, cade in un pozzo, o in un fosso; grida per quanto voglia, deh aiutatemi, o Cittadini, che non vi sarà chi diasi la cura di estrarnelo. E se taluno volesse darsi il pensiero di farlo, e calargli giù una fune, a costui dirò io: ma chi sa, se egli a quattr’occhi vedendolo, e sapendolo, vi si sia volontariamente gittato? E non voglia essere salvato? Ed immediatamente gli racconterò la storia di un Siciliano Poeta. Volendo Empedocle esser tenuto per un Dio immortale, a sangue freddo si gittò dentro (57) l’ardente Etna. Abbiansi pure i Poeti il dritto, e la libertà di andarne alla morte; ma chi ne salva uno contro voglia di lui, commette lo stesso delitto, che se l’uccidesse. Si aggiunga , che non ha ciò fatto una sola volta; nè se ne lo ritrarrai di nuovo, ritornerà in se stesso, e diverrà nuovamente uomo, deponendo la matta di voler fare una morte famosa. Né bastantemente apparisce, per qual cagione egli brami far versi; se perché abbia, urinandovi, violati il sepolcro, e le ceneri paterne, o profanato altro luogo infelicemente fulminato dal Cielo, ed indi consagrato, e purgato. Il certo si è, ch’egli è un matto furioso, e qual’Orso rinchiuso, ch’ebbe la forza di rompere gli opposti cancelli, mette in fuga i dotti e gl’indotti con voler loro acerbamente recitare i suoi versi. Chi poi avrà egli afferrato, lo tien forte, e l’uccide a forza d’infracidarlo leggendo, come una mignatta, che non distaccasi dalla pelle, se di sangue prima non sia pinza, e zeppa.
FINE.
Note di Carlo Paolino:
Questa, che porta il titolo di arte Poetica di Orazio non costa se così fosse stata presentata a Pisone, in grazia de’figli del quale pare assolutamente, che fosse stata scritta. I paragoni, e gli esempi addotti, e soprattutto nell’incominciamento con un quadro di una figura così strana, e goffa, non avrebbero luogo, né sarebbero da tollerarsi se non ne’Dialoghi con fanciulli, i cui talenti non sono ancora sviluppati a sufficienza, né capaci di comprendere da loro stessi la semplice verità delle cose, senza soccorso di esempi, e paragoni facili, e grossolani. Per la qual cosa essa è da considerarsi come una Lettera in forma di Dialogo tra l’Autore, ed i figli di Pisone, come anche facilmente si potrà rilevare dal proseguimento della medesima. Ciò nonostante avendo anche l’autore avuto facilmente in mira di dare a’Romani una Poetica da servire come un perpetuo, ed inalterabile modello, ha qui riunito, e raccolto quanto forsi vi era di più preciso, e singolare tra gl’insegnamenti di Aristotile, di Critone, Zenone, Democrito, e soprattutto di Neoptolemo da Paro; tanto è vero, che Porfirione scrisse a questo proposito: in quem librum conjecit praecepta Neoptolemi de arte Poetica non quidam omnia, sed eminentiora. Non vi è persona, la quale oggi non confessa, che tra l’antichità non si trovi un’altr’opera di critica né più eccellente, né più proficua, e necessaria di questa. Essa non lascia cosa veruna a desiderare. Tutt’i giudizi, che contiene sono ricavati dalla natura medesima delle cose; talmente che sono meritevolmente passati a precetti: e sono così necessari, ed importanti, che tutto giorno il successo delle grandi opere si vede dipendere dall’esatta, e precisa osservanza delle sue regole. Egli è molto difficile di assegnare la data certa del tempo, in cui questa lettera sia stata scritta; è da supporsi però, che fosse una delle ultime opere di Orazio, quando era diventato più consumato nell’arte.
1- Humano capiti cervicem ecc. Se si lascia libero il campo alla sana riflessione, si dovrà necessariamente conghietturare, che questo quadro presentasse il volto, e l’anteriore del busto di una bella donna. L’aver dettoCervicem è certo, che con più precisione si abbia voluto denotare la parte posteriore del collo, e non già il collo intiero. Or quando si volesse attaccare all’intiero collo di un Cavallo un petto quanto si voglia bello di una donna, non solamente è sicuro, che si deturperebbero le qualità di una bella donna, ma sono a dire ancora, che si toglierebbero affatto le idee, ed apparenze di qualsivoglia donna. E poi non sarebbe questo un soggetto da provocare il riso; ma da far concepire piuttosto schifo, ed orrore.
2- Et varias inducere plumas. Si accresce sempre più il motivo del riso coll’apposizione di varie penne di differenti uccelli: e pare, che questa similitudine sia stata tolta ad imprestito dalla famosa Cornacchia della Favola.
3- Ut turpiter atrum . A Sanadon invece di ut è piaciuto leggere aut, persuaso che Orazio avesse voluta dare l’alternativa di due figure bizzarre, di cui l’una avesse la testa di uomo, e l’altra presentasse il busto di una donna dalla cintura in su. Io però non trovo una fondata necessità di ricorrere a questa tale alternativa; né le parole sono tali, che conducono alla disunione del filo del soggetto. Qui l’ut come spesso succede, è per ita ut, come se volesse dire ita ut mulier formosa superne desinat in piscem. Oltre di ciò superne, ed inferne sono correlativi in maniera, che l’idea di uno fa nascere quella dell’altro, il quale o trovasi espressamente, o è divisato con altri termini, che conducono allo stesso, come qui fa il desinat. Qui dunque il superne divide il mostro in parte superiore, che è una bella donna, e in parte inferiore rappresentante un nero, ed orroroso pesce.
4- Scimus, et hanc veniam ecc. Mr. Dacier crede, che solamente scimus dovesse mettersi in bocca di Orazio, e tutto il resto considerarsi come una sollecita risposta de’cattivi Poeti, che l’interrompono col dire: Et hanc veniam petimus damusque vicissim. Appoggia il suo sentimento su di ciò, che Orazio non potea cercare il permesso di far’uso di questa licenza, quando egli non dovea riguardarsi come poeta, giacchè non componeva poesie né Epiche, né Drammatiche. Questo sentimento è con ragione contraddetto da Sanadon, il quale dice, che non vede una positiva ragione, che ci obbliga a mettere questo passo in Dialogo simile; e che al contrario tutte siano parole di Orazio, il quale sebbene non facesse componimenti Epici, né Drammatici, pure non lascia di esser Poeta; e qui parla in nome de’suoi confratelli, o sian poeti del suo partito. E poi se non fosse per questa ragione non avrebbe detto scimus, damus, petimus servendosi del numero del più. Orazio dunque in nome di tutti dandosi carico della libertà, che avevano i Pittori egualmente, che i Poeti dice scimus; e colle parole seguenti: et hanc veniam petimus fa vedere che passa subito ad approvarla in modo, che vicendevolmente la pretende, quando egli non è restio ad accordarla, però con una certa moderazione, come si nota nelle seguenti parole: sed non ut ecc.
5- Sed non ut placidis coeant immitia ecc. Subito che Orazio ha detto, che si servissero pure di quei privilegi vantati da’Pittori, e Poeti, gli avverte, che non ne abusassero, e fossero ben cauti a non riunire cose ripugnanti, e contro natura, come succederebbe coll’esempi, che adduce.
6- Pluvius. L’Iride, o arco baleno in latino si dice pluvius non già perché il medesimo sia cagione della pioggia; ma per lo contrario è dalla pioggia cagionato. Perché il medesimo potesse comparire, tre cose si ricercano, cioè l’occhio dello spettatore nel mezzo, la nebbia pioviticcia da una banda, e dall’opposta il sole, i cui raggi incidenti nelle gocciole della nebbia col riflettersi che fanno giungono all’occhio dello spettatore divisi ne’colori primitivi.
7- Et fortasse cupressum scis ecc. Io non saprei come si possa dire, che i Cipressi servivano di soggetto allo studio, ed alle prove di quei, che cominciavano a scarabocchiare col pennello. Però, se si considera esattamente quanto si è detto, e quanto colle parole seguenti viene espresso, si vedrà, che non senza motivo si è preferito il cipresso a qualunque altro albero, che poteva benissimo servire all’istesso oggetto. Perché, siccome Orazio vitupera, e deloda quel poeta, il quale essendo per cagion di esempio incombenzato di cantare le Vittorie di Augusto riportate lungo la riva del Reno, si mette a tessere una lunga, e ristucchevole descrizione del detto fiume per cui meritevolmente gli si può dire Sed non erat his locus, che dovendo egli avere le sue principali mire alle vittorie di Augusto, le avea rivolte al Reno fuor di proposito; così farebbe lo stesso per un Pittore, il quale per paga anticipatamente avuta fosse nell’obbligo di esprimere, e colorire su d’una tela un povero disgraziato, il quale avendo rotto in mare, e disperando di sua salvezza cerca nuotando scampar la vita, volesse invece sostituirvi un bel formato Cipresso adottato nei lugubri apparati come un simbolo del lutto, e del duolo. Non sarebbe egli degno di essere schernito, e deriso? E pure sarebbe senza forsi minor male per un vasaio, il quale avesse in pensiero di formare un’anfora, e poi col girar della ruota si lasciasse uscire di mano un’orciuolo. Qui è da notarsi ancora, che et sta in luogo dietiam, come se dicesse: ancora tu sai (parlando del Pittore) dipingere..
8- Enatat expes. Enatat significa salvarsi nuotando, uscire a nuoto dalle onde. Si dice poi expes senza speranza di salvarsi, e di recuperare quanto di mercanzia, o di altro teneva ne’bastimenti ingoiati dal mare.
9- Sectantem levia nervi deficiunt ecc. Siccome chi scrive con troppa brevità il più delle volte corre rischio di non essere inteso, non essendo le idee sviluppate a segno d’apportare la necessaria, e la debita chiarezza; così coll’incorrere nel vizio opposto, volendo esser troppo minuto, e brigarsi di tutte le inezie, manca di spirito, e di forza. Dei due vizi, però, è più biasimevole la brevità, quando uscisse dalla lodevole concisione, e togliesse l’opportuna, e necessaria chiarezza. All’incontro la Prolissità figlia della minutezza è vero, che toglie l’energia, e lo spirito al componimento, a chi compone, ed a chi legge; pur non di meno l’opera non si rende inutile, come succede nel primo caso. Quindi si vede con quanto fondamento Bentlei avesse letto lenia per levia; ma quel che accresce la meraviglia si è, ch’è stato seguito da Sanadon, il quale dice, che levia è un errore de’copisti, e de’Grammatici, i quali non han voluto badare, che in genere di stile i Latini non hanno mai opposto nervosus a levis, ma bensì lenis. Qui però Orazio non si è mai sognato di opporre levis a nervosus, ma solo ha parlato prima di chi ama la brevità, e poi di chi segue la prolissità, la quale tacitamente è spiegata col sectantem levia. Imperocché prolisso si rende chi vuole andare appresso a tutte le cose legiere, a tutt’i peli, a tutte le minuzie. L’inganno forsi l’avrà prodotto nervi, senza badare, che nervi deficiunt, animique è conseguenza della prima parte, cioè data la prolissità in un componimento dovrà necessariamente lo stesso riuscire snervato, e languido
10- Serpit humi tutus nimium. Allo stile alto, e grande si oppone il basso, e tenue. Or siccome chi agogna al grande, e molto di sé si compromette, non fa conto delle minime cose; anzi cerca, dirò così, di adattare al fringuello le ali della grù; così al contrario chi è troppo timoroso nel concedere alle idee la giusta, e dovuta estenzione, si rannicchia talmente, che rade la terra. Quindi lo stile basso, e tenue diventerà più che umile, ed esile. Questa espressione di Serpit humi ecc. al credere di Dacier, pare che Orazio presa l’avesse dagli uccelli, i quali volteggiano sulla terra quando il timore del vento, e della tempesta impedisce loro d’innalzare il volo.
11- Qui variare cupit rem prodigialiter unam. In questo, e nel verso seguente è fuori dubbio, che vi si racchiude un altro precetto, il quale tocca positivamente la verità della cosa, di cui si tratta. Chiunque abbia la mira e la facoltà di trattare l’istesso soggetto con delle diverse tinte, modificate però in guisa, che ne vantaggino la condizione, e ne faccino risplendere le grazie, e le bellezze, si apre certamente la strada alla lode meritata dalla sua virtù. Al contrario variare un soggetto, dare al medesimo de’prodigiosi colori, i quali non dico, che ne alterino, ma ne cambiano affatto la natura, è l’istesso dire, che non si marcia più per la verità del medesimo. Un Pittore, che dipinto avesse un topo colle ali, avrebbe egli fatto una pittura vera, e naturale? Sarebbe egualmente deriso, come quell’altro, che volesse situare il cinghiale nel mare, e ne’boschi il delfino. Tutte quelle cose, le quali non si veggono sotto il vero, e naturale aspetto, e si allontanano dall’ordine consueto, sono da riporsi tra le classi de’prodigi, e de’portenti. Per questa ragione l’autore si è espresso prodigialiter . All’incontro chi fosse troppo parco, o per timore di non alterare la cosa non volesse discostarsi dalla naturale semplicità, e precisione, inciamperebbe nello stesso difetto ogni qualvolta non venga assistito dalla maestria la più sopraffina. In vitium ducit culpae fuga, si caret arte. Questa massima è presa intieramente dalla pittura. In fatti un soggetto stesso può alterarsi o colla varietà, e superfluità, o colla diminuzione, e mancanza di alcuni colori necessari; ed egualmente ci discostiamo dal vero in quello, che in questo caso. E siccome nel primo alcune volte una certa illusione non ci fa dispiacere il verosimile,così nel secondo non si ammette via di mezzo. Di quindi sempre si è creduto, e detto, che il più semplice fosse il più difficile.
12- Ponere totus. Ponere qui significa lo stesso, che componere, , comporre, mettere insieme, situare, o accozzare le parti di un tutto in maniera, che risorge quel soggetto, che noi vogliamo; e si dice in generale di tutte le opere eseguibili di qualsivoglia genere, che risultano dalla connessione delle varie parti, che loro competono. Non basta ad un’artista che sappia ben formare una, o un’altra cosa: e quando tutte le parti separatamente fossero ben’eseguite, riuscirà sempre infelice la somma, o sia l’unione di esse, quando non concordano né tra loro, né col tutto, vale a dire quando non serbano la dovuta proporzione. Chi sapesse bene i tuoni musicali, e nell’esecuzione di qualche pezzo non serbasse a dovere il tempo necessario, potrebbe ottenere ragionevolmente, che felice, o sia armoniosa si dicesse quella musica?
13- Hunc ego me, si quid componete curem. Orazio in questa occasione dice, che non vorrebbe esser paragonato allo stesso Fabro nelle sue composizioni, non altrimenti come non amerebbe avere un deforme naso sul proprio viso ammirabile d’altra parte per gli occhi, per la capellatura ecc. Una persona gelosa del suo onore non è così facile a contentarsi di tutto indifferentemente; ma cerca sempre sfuggire qualunque neo ancorché minimo.
14- Et versate diu, quid ferre recusent …Queste parole a prima vista si potrebbero prendere per superflue, ed inutili, come quelle, che in certo modo ripetono l’istesse idee del verso precedente. Però è molto diverso da sumite materiam vestris viribus aequam il dire Versate diu ecc imperciocchè taluno facilmente potrebbe credersi essere nello stato di farsi uscir di mano qualche eccellente composizione, e forsi il suo credere sarebbe vano, e un solenne inganno; il quale però in una maniera solamente potrebbe evitare qual è quella di versare diu cioè di far un lungo, e rigoroso esame sulle sue forze, considerarle per quanto si estendono, e fin dove possono resistere in rapporto al peso, che si voglia addossare; giacchè non a tutti è conceduto di avere i medesimi gradi di potenza, e di resistenza. Quando questo si faccia cui lecta potenter erit res, vale a dire quando si scelga un soggetto proporzionato, ed analogo alla sua possanza, ne avverrà per sicura, e legittima conseguenza, che nec facundia deferet hunc , nec lucidus ordo, non altrimenti, ch’ei dicesse, che senz’aiuto dell’arte viene da sé la facondia ad informare il petto del Poeta, accompagnata da un’ordine chiaro, e spedito.
15- Ordinis haec virus erit, et venus, aut ego fallor. Qui la disposizione , e l’ordine delle parole, e delle idee è molto differente dal naturale e dall’istorico, per cui vi bisogna non piccola finezza, e discernimento. Orazio apporta quale, ed in che modo dev,essere; e pare, che di questo insegnamento ne voglia dare una certa sicurezza coll’aggiungere l’espressione aut ego fallor, appunto come volesse dire: aut ordinis haec virus erit , et Venus, aut ego fallor. Ed è questa una maniera di parlare usitata, e familiare.
16- Promissi carminis… Colla comune va qui parimenti Dacier nella spiega di Promissi carminis; e lo chiama poema promesso, come quello, che si attenda da lungo tempo, e sul quale si è accesa la curiosità del pubblico; perché tutto quello, che si attende da lungo tempo dev’essere necessariamente più perfetto, figurandosi, che Orazio avesse avuto sotto gli occhi l’Eneide di Virgilio, che si aspettò buona pezza da che se n’era parlato. Io però confesso di non vedervi connessione alcuna; non posso immaginare, che Orazio avesse avute in mente queste idee, le quali sarebbero molto aliene in un momento, che parla di quel, che deve concorrere nell’attuale formazione di un componimento. Quindi son di parere, che promissi carminis non riguarda un poema desiderato da lungo tempo a tenore della promessa, ma bensì quello, che attualmente uno lavora, e che senza ch’altri lo sappiano, può benissimo dirlo promissi, non altrimenti che volesse esprimersi sibi ipsi promissi , per darne una spiega triviale, la quale neppure è necessaria, potendo molto bene reggere da sé, ed esser facilmente compresa da chi voglia entrare nel fondo di questa riflessione. Oltre di ciò vi sarebbe parimenti un’altra considerazione, che potrebbe aver luogo; ma la lascio indecisa per timore, che non sembrasse strana, perché posta in campo la prima volta per quanto è a mia notizia. Essa è appunto di potere attribuire a promissi carminis il significato di un poema lungo; non altrimenti, che la barba lunga dicesi promissa barba, promissae comae, promisso ventre arietes ecc. Perché solo, generalmente parlando, in un lungo Poema, qual è l’Epico, e il Drammatico, è necessario che l’autore jam nunc dicat ecc. pleraque differat ecc. hoc amet, hoc spernat ecc.
17- In verbis etiam ecc. Sembra non molto alieno dal vero, che possa aver luogo il sentimento di Bentlei sostenuto da Sanadon, che questo verso dovesse trasferirsi nel luogo del precedente. Alle ragiono addotte si aggiunge, che Orazio cotanto accorto se così non avesse stimato, non avrebbe adoperato hoc, e hoc, che si riferisce a Verbum; ma senza costargli cosa avrebbe piuttosto detto haec servendosi del numero del più egualmente , che poco sopra.
18- Parce detorta. Fa mestieri, che queste voci semplici novelle discendano dal Greco, ma che l’origine ne sia parimenti ben marcata, che l’analogia sia giusta, ed intiera, e che non sia né ardita, né stiracchiata da lontano: ed ecco, che significa qui parce deporta.
19- Sive receptus terra Neptunus classes ecc. Neptunus Dio del mare è talvolta preso per lo stesso mare in generale, o in particolare, come in questo luogo, dove vien designato quel tanto di acqua, che dicesi receptus terra, quella porzione cioè, che rinchiusa viene ne’porti per la sicurezza de’Bastimenti. Or qui Orazio deve parlare sicuramente del Porto Giulio opera magnifica, e grandiosa dovuta ad Augusto. E che voglia intender questo, si può dedurre dal considerare, che Orazio godendo il favore, e tutti gli effetti della beneficenza di quel gran Principe, per non cessar mai di mostrare la dovuta riconoscenza, non lasciava sfuggire qualunque minima occasione di decantare le glorie del medesimo, e mettere in veduta le sue opere più grandiose. Infatti oltre di questa, ne rapporta in seguito altre due eseguite ben’anche dall’istesso Augusto, una cioè dell’essiccazione delle Palude Pontine, e l’altra degli argini fatti al Tevere, che colle inondazioni rovinava le sottoposte campagne. Questo porto, di cui si è fatta menzione, per disposizione di Augusto fu portato al grado di magnificenza da esser decantato per un’opera la più illustre, e la più rinomata. Si servì dell’assistenza, e dell’impegno di Agrippa, il quale fece rompere lo spazio di terra interposto tra il lago Lucrino e il lago di Averno per farne la totale riunione, e così conciliare al porto la dovuta estenzione; ed oppose al lago Lucrino argini grandi o smisurate moli da rifrangere l’empito, e l’orgoglio delle onde. Si vegga Virgilio II. Georg. Ver. 161. Opera veramente da Re: Regis Opus. Augusto poi permise che si chiamasse porto Giulio, o perché volle consacrarlo al nome di Giulio Cesare per un certo rispetto, e venerazione, o perché veramente questa intrapresa fu mossa, e cominciata dallo stesso Giulio Cesare, come da Svetonio: Portum Julium apud Bajas immesso in lucrinum, et avernum lacum mari, effecit. Ecc. Oggi però di quest’opera appena compariscono pochi vestigi. E pare che Orazio ne avesse fatta la profezia con dire poco dopo; mortalia facta peribunt. Il tempo, e le rivoluzioni della natura ne sono i più possenti distruttori. In fatti quel sito, che serviva all’ingresso di detto porto è occupato dal monte Nuovo, che sorse a 29 Settembre dell’anno 1538.
20- Doctus iter melius. Apparentemente per meliori itinere. Plauto disse ancora: Curatio hanc rem invece di hujus rei. I Grammatici han detta Antiptosi questa Costruzione.
21- Nedum sermonum stet honos ecc.Dopo che Orazio ha rapportato varj esempi di cose, che nonostante la loro grandezza, e necessità grande di doversi mantenere, sono finalmente coll’andar del tempo rimaste estinte, con tuono preciso conchiude: Mortalia facta peribunt, quasi volendo significare si mortalia ecc. con soggiungere immediatamente nedum sermonum stet honos, ove stet non può, né deve spiegarsi, che potenzialmente, cioè molto meno, o ne anche può restar saldo ecc.
22- Voti sententia compos. Orazio siccome ha poco sopra annunziato, che le grandi azioni de’Re, e de’distinti Capitani erano il soggetto della poesia Epica, così in questa occasione ci vuol designare in quali materie deve impiegarsi l’Elegia: e dice, che siccome prima era destinata per le cose funebri, così coll’andar del tempo servì ancora per esprimere il contento, e l’allegrezza per qualche cosa ottenuta a seconda del desiderio. Gli amori in generale presentano il soggetto più ampio, che mai per questa specie di composizione, come si può scorgere presso di Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, ed altri, che l’hanno adoperata.
23- Quis tamen exiguos elegos. Da Elegos si è fatto Elegia. L’origine primitiva poi voglion farla derivare da άπό τέ έλέγε ( a luctu) come una composizione, che si adoperava nelle cose lugubri, e lamentevoli. Non per altra ragione Ovidio la chiamò flebilis. Ella cammina con versi due a due impariter junctis, cioè con un esametro, ed un pentametro in maniera, che sembra zoppicare:
Venit adoratos elegia nexa capillos,
Et put opes illi longior alter erat (Ovidio)
Ed il suo giro è tale, che la rinchiude in certi limiti, onde par che non abbia la conveniente facoltà di potersi liberamente spaziare di molto. Da questi motivi, dunque, e dalla materia non è meraviglia, che Orazio dica exiguos, come quella che non si adatta agli argomenti gravi: tanto vero, che Ovidio avendo voluto tentare il contrario, ne dimostra il pentimento dicendo:
Quid volui infelix elegis imponete tantum
Ponderis? Heroi res erat ista pedis.
24- Fidibus. Nella sua origine Fides corrispondeva χορδη chorda, intestinum, denotando
gl’intestini disseccati, e preparati a guisa di fili, che oggi diconsi minugge, o Corde di
budella. Erano impiegate nella Lira, ed in altri simili strumenti, per cui Fides passò a
significare la stessa Lira: Di quindi si è fatta Fidicen, e Fidicina. Si son serviti poscia della
parola diversamente in materia di Religione, di Etica, Politica ecc.
25- Divos, puerosque deorum. Tra i soggetti della poesia lirica erano i Dei, ed i Figliuoli de’Dei, che sono i Re, gli Eroi ecc. Così li chiama ancora nell’oda II del lib, IV. Deorum sanguinem, dicendo nel verso 13: Seu Deos, regesque canit, Deorum sanguinem.
26- Et juvenum curas, et libera vina ecc. Il Foco che si accende nello sviluppo della prima età fa si, che i Giovani precipitosamente si lasciano cadere nella crapula, e nelle passioni amorose: e queste sono, e non altre le loro particolari cure. Chiama poi libera i vini della licenziosità, e sfrenatezza, che ne apporta l’uso smoderato.
27- Singola quaeque locum teneant sortita decenter. Quintiliano ha similmente detto nel lib. X: Sua cuique proposita lex, suus decor est; nec Comaedia in cothurnos assurgit, nec contra Tragaedia socco ingreditur. E’ da notarsi, chesortita è in luogo di sortitum accordabile con locum. Maniera molto familiare ai Latini. Sanadon con l’autorità de’manoscritti, e di più critici legge decentem invece di decenter. Non se ne vede la ragione sufficiente. Anche Dacier lo disapprova.
28- Male si mandata loqueris. Dacier dice, che spiegano mandata quasi partes sibi a fortuna datas; o veramente partes personae a poeta commissas , e l’una e l’altra di questa spiega gli sembrano da non potersi sostenere; e vuole, che Orazio alluda alle arringhe, che facevano Teleso, e Peleo ai Greci per obbligargli a dar loro qualche soccorso. Comunque si voglia, Orazio parla qui della tragedia; e portando per esempio quella di Teleso, e Peleo dice, che se la parte, che deve stare in bocca di chi rappresenta Teleso, e Peleo non è bene appropriata, e descritta in guisa, che malamente si adatta al caso, che si vuol rappresentare con successo, non solo, che non muove gli affetti, ma per lo contrario apporta sonno, o riso.
29- Format enim natura prius nos intus ad omnem fortunarum habitus. Quasi la stessa è la descrizione, che Cicerone ne dà nel lib. II del suo Oratore, ove dice: omnes animi motus suum quondam habent a natura vultum, sonum, gestum; totumque corpus hominis, et ejus omnis vultus, omnesque voces, ut nervi in fidibus ita sonant, ut a quoque animi motu sunt pulsae. Oggi non v’è chi non sappia quanto possa sullo spirito l’influenza del Corpo, la quale variando secondo i temperamenti, non può fare, che varie non ne riescano le emozioni. E siccome naturalmente lo spirito è capace di percepire i varj cambiamenti, così il corpo ave la forza rendergli sensibili, ed esprimergli sotto il loro aspetto mediante i propri strumenti, post effert animi motus interpetre lingua ecc.
30- Juvat, aut impellit. Qui bisogna fare una riflessione necessaria, per meglio capire il senso di juvat, e di impellit. Tra gli uomini i dotati di temperamento sanguigno, o colerico hanno una naturale facilità, e propensione allo sdegno. I flemmatici al contrario, ed i malanconici non sono di questa portata. Non è però, che talvolta non possono montare in furia; anzi siccome non sono così facili, perciò quando vi sono provocati sogliono essere i più tenaci. Nel primo caso vi è la semplice mano, o sia l’aiuto della natura, juvat: nel secondo vi è la forza, o sia l’impulso della medesima,impellit.
31- An matrona potens. Non so perché si debba ricorrere alla suddetta supposizione, quando più naturalmente Sedula nutrix si può prendere in senso cattivo, una nutrice cioè di diligenza assettata per espiscare sempre più alla sua ricca padrona, potens.
32- Honoratum. Questa lezione è stata cambiata in Homereum da Mr. Bentlei, il quale dice, che si deve rigettare l’ordinaria Honoratum per varie ragioni, le quali sono ricevute, e rapportate da Sanadon. Primieramente perché gli Antichi Scoliasti non ne danno alcuna spiega, né dicono cosa, che ci abbia rapporto, ciò che non avrebbero mancato di fare se ne’loro manoscritti si fosse ritrovata questa parola. In secondo luogo, che Orazio non ha dovuto servirsi di simile epiteto, perché, siccome egli vuole, che gli Eroi si distinguano coi caratteri conosciuti per Fama, questa non ha data mai di lui quell’idea, che presenta l’epiteto honoratus; e quando fosse vero, il Poeta si sarebbe contraddetto. Per terzo, che negli altri esempi rapportati non attacca ai nomi veruno epiteto; così dice: Medea sit ferox; Ino sit flebilis ecc. Egli dunque o non dovea darne affatto al nome di Achille, o potea usarne uno vago, ed indeterminato. Finalmente, che vi è molto apparenza, che i Scoliasti avessero letto Homereum ne’manoscritti, come si può giudicare dalla spiega, che hanno data di questo verso. Si ad imitationem Homeri describis, si Achillem, de quo semel Homerus scripsit, velis scribere, talem debes scribere , qualem Homerus ostendit. Io per me non saprei indovinare di quanto peso fossero le suddette riflessioni di questo Savio. Solo dico, che i Scoliasti intanto non avranno interloquito su questo punto, perché non hanno avuto la sorte di presentarsi loro un sogno simile. Poi Orazio non ha inteso, o almeno si deve giustamente supporre, che non abbia potuto intendere di chiamare Achillehonoratum per unirlo ad impiger , inexorabilis, acer ecc. che sono i veri caratteri, che seguono la Fama , secondo il precetto del medesimo; ma si deve dire piuttosto di averlo chiamato Honoratum dal perché abbia avuto la fortuna, e l’onorevole piacere d’incontrare la penna di Omero, unica, e principale cagione, onde il suo nome si è reso così celebre, e famoso, ed immortale presso i posteri. Similmente di questi versi del Petrarca P. I. 154:
Giunto Alessandro alla famosa tomba
Del fiero Achille sospirando disse:
O Fortunato, che sì chiara tromba
Trovasti, e chi di te sì alto scrisse.
Si vede che abbia egli avuto l’aggiunto di Fortunato; non perché tale fosse stato
intrinsecamente, ma bensì per la già conosciuta estrinseca cagione, d’onde il medesimo
riconosce l’immortalità del suo nome.
33- Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem. Nel mentre da una parte loda Omero, il quale da un principio umile, semplice, e proprio va gradatamente sviluppando la materia del suo poema per dargli la più bella, e la più luminosa forma, vitupera dall’altra quei Poeti, che da lucidi, e sfolgoranti cominciamenti, da grandi, e molteplici promesse, e da un fare attivo, e borioso vanno dopo poco a cadere in dense caligini, in vane piccolezze, e vergognose abiezioni.
34- Semper ad eventum festinat. Con queste parole non vuole Orazio sicuramente intendere altra cosa, che l’arte del Poeta dev’essere tale, che faccia sempre sembianza di andar frettoloso verso il caso principale, che vorrebbe svelare, con attirare l’animo dell’uditore in mezzo del fatto medesimo non altrimenti, che le circostanze tutte, che vi concorrono fossero state a pieno anteriormente conosciute. Gli esempi su questo proposito si possono facilmente ricavare dalla lettura di Omero, e di Virgilio. Quegli cominciò l’Iliade dall’ira di Achille, che precedè di poco all’eccidio di Troia: e questi l’Eneide dal settimo anno de’viaggi di Enea. Tutto e quanto si è notato non dev’essere così alla rinfusa eseguito, ma con ogni esattezza, e giudizio, in maniera, che se tra questi aggiunti vi fossero cose, che non potessero là per là essere a sufficienza comprese, o che il luogo, e l’occasione non permettesse dar loro la debita chiarezza, o che finalmente in vece di accrescere, scemassero piuttosto la grazia, e lo splendore al soggetto, è della prudenza del Poeta, che si lascino da parte.
35- Mobilibusque decor ecc. Per li due versi suddetti non mi pare , che sin qui si fosse fatta una spiega conveniente; e quando non fosse così, Orazio avrebbe detto l’istessa cosa in due differenti maniere. Io dunque son di parere, che egli voglia inculcare al poeta di fare un esame particolare, ed esatte osservazioni, e riflessioni sopra i costumi di ogni età cioè a dire sugl’andamenti, azioni, ed inclinazioni di ciascuna età, per così poi avere il vantaggio di esprimere i soggetti col proprio decoro, vale a dire con quei caratteri, che sono convenienti, e che possono far distinguere questo da quell’altro temperamento. Quindi notandi sunt tibi mores è un avvertimento, che fa semplicemente al Poeta per la buona condotta; e decor qui non deve altro significare, che quod decet , cioè quel carattere, che conviene. La natura dell’uomo è mobile, e soggetta a cambiamenti, come cambiano gli anni, i quali si rapportano rinchiusi in quattro differenti epoche, per avere quanto è possibile un quadro generale de’diversi andamenti.
36- Et apertis otia portis. Otia la tranquillità, e la pace in conseguenza della quale si applicano le porte delle case, e della città, che per le guerre si eran tenute chiuse, a differenza delle porte del tempio di Giano, che si chiudevano dopo fatta la pace.
37- Liberque laborum. Sciolto dalla fatica, libero dal travaglio ecc. E si esprime così non altrimenti, che si dice ancoralassus viarum.
38- Silvis deducti caveant me judice fauni. Qui Orazio dà il suo sentimento sulla qualità del carattere, che conveniva ai Satiri, e Silvani. Degli abitatori delle selve. E quel me judice altro non significa, che a quel che stimo, secondo il mio giudizio.
39- Hic e tacci ecc. Vossio ha spiegato hic per hic loci, ma mi pare che vada lontano dalle cento miglia. E’ da dirsi piuttosto relativo spiegabile per hic versus contextus ecc.d’onde dipende apparet, e poi potrebbe reggere premitquattro versi appresso.
40- Non quivis videt immodulata ecc. Qui Orazio accorda, che non tutti sono nello stato di conoscere la bella, o cattiva modulazione de’versi; ma non per questo il Poeta deve scrivere alla rinfusa (vager), e senza regola (licenter).
41- Pallaeque. Si diceva Palla quasi pallii genus una veste lunga fino ai piedi, che sulla stola usavano le sole donne in preferenza degli uomini, che non potevano adoperarla senza grande ignominia. Presso i Galli appena giungeva al ginocchio. Gli attori delle Tragedie erano coverti di Palla, o del Syrma, per cui syrma si è adoperato a significare ancora l’istessa Tragedia, ed in generale le cose tragiche.
42- Pulpita. Si chiama pulpitum nel Teatro il luogo più elevato del proscenio, in cui stavano, e rappresentavano gli Attori. Questo nome pulpitum si usurpa qualche volta per gli stessi giochi scenici.
43- Pompilius sangue. Si è di sopra annunziato, che i Pisoni traevano l’origine da Numa Pompilio, e da Calpo di lui figlio, onde furon detti anche Calpurnj.
44- Ore rotundo. Il suono si dice perfetto, ed Armonioso quando esce libero, franco, e senza intoppo veruno. Ciò succede solamente quando l’istrumento è cilindrico, o sia rotondo. Ecco perché Orazio volendo lodare la lingua de’Greci come una lingua armoniosa, e perfetta, dice, che per dono delle Muse parlavano colla bocca rotonda. E’ veramente poi da ammirare, che i Greci non finivano mai parola alcuna colla bocca chiusa, o sia coll’M, cosa che per lo contrario spesso si ravvisa nella lingua Latina.
45- Romani pueri ecc. Ecco qui una Satira ai Romani, i quali perché attaccati all’interesse facilmente posponevano a questo l’amore di tutte le lodi possibili contro il costume de’Greci. Perciò dice, che imparavano con lunghi calcoli a dividere l’asse in cento parti.
46- Si de quincunce ecc. L’asse si divide in dodici once: uncia si è detta dall’unità: due si dicono Sextans: la sesta parte dell’asse: tre quadrans la quarta parte: quattro triens la terza parte: cinque quicunx : sei semis la metà: setteSeptunx : otto Bes, ed anticamente Des: nove Dodrans: dieci Dextans: undici Deunx. Ecco qui un Dialogo di un Maestro collo Scolaro, il quale indugiando a rispondere, ed essendo sgridato con poteras dixisse, finalmente dicetriens, che mostra più profondità, mentre si dà carico del tutto, o sia dell’asse: perciò ne riporta dal maestro la loderem poteris servare tuam.
47- Linienda cedro. Per conservare i libri, ed altre cose soggette al guasto si ungevano dagli antichi col sugo di cedro. L’attesta anche Plinio nel lib. 16 cap. 39 Cedri oleo peruncta licevasi materies nec tineam, nec cariem sentit. Qui Orazio allude ad un’opera stimabile, e per conseguenza degna d’esser conservata.
48- Et levi serranda cipresso. All’istesso fine adoperavano le casse di cipresso, il quale ha l’istessa virtù di conservare le cose intatte dalla tignola. Plinio lib. 16 cap. 40, e 42 Cypressus cariem, et vetustatem non sentit…adversus cariem, timeasque firmissima.
49- Austera poemata. Siccome si dice austero il sapore di quelle frutta, che sono acerbe, e che non ancora hanno acquistato il dolce della maturazione, così erano chiamati austeri quei poemi, che nulla contenevano di dolce, e di piacevole, e che perciò venivano vilipesi dai Cavalieri
50- Invita Minerva. Come le dicesse ributtando Minerva, Divinità, che presiede alle arti, ed alle scienze, senza il soccorso della quale niuno può riuscir felice in qualunque suo lavoro. Questo proverbio è adattabile a coloro, i quali vogliono tentare quello, a cui non sono adattati dalla Natura, e che per conseguenza non possono mai ben eseguire.
51- Cuncubitu prohibere vago, dare jura maritis. Come se si dicesse prohibere maritos, o anche maritis a concubitu vago. Questa è la più savia Legge per togliere i sconcerti, che insorgono tra le famiglie presso i popoli attaccati alla gelosia, ed all’onore.
52- Ligno. Le prime leggi furono scritte in versi sopra tavole di Legno. I Romani le incisero su quelle di Rame, e le affissero nei luoghi pubblici.
53- Metam. Porta l’esempio di que’giovani, che si avvezzano all’esercizio della Corsa. Il luogo destinato per principiarla licevasi Carcer, e quello dove finiva Meta.
54- Occupet extremum scabies. Era questo un detto familiare a’Ragazzi ne’loro giochi particolari, massimamente quando vi era in campo qualche partita di corsa. Essi volendo l’un l’altro stimolarsi, dicevano occupet extremum scabies.
55- Relinqui. Segue l’istesso esempio della corsa, nella quale si riputava a vergogna l’esser lasciato in dietro. In modo figurato poi significa sorpassare.
56- Iracunda Diana. Con queste parole sembra più che sicuro, che Orazio voglia denotare l’epilessia. Questa malattia volgarmente è stata , ed è tuttavia detta Morbus lunaris, nome analogo, e uniforma a Diana, giacchè così anche chiamavasi la Luna. Si è opinione, che questo morbo portasse il nome di Lunaris forsi dalla falsa credenza, che le sue accessioni corrispondessero alle fasi della luna: ma dall’espressione di Orazio è più a proposito dire, che si fosse creduto nascere questo terribile male dall’ira di Diana. Quindi facilmente si capisce perché siasi chiamato ancora ιερος νοσος morbue Sacer, come quello che riconosceva l’origine dal furore d’una Deità.
57- Ardentem frigidus Aetnam. La parola frigidus si è qui diversamente intesa, tanto che taluni l’hanno spiegata stolto, ed altri di sangue freddo. A Dacier non piace né l’una, né l’altra spiega: la prima come fredda, ed insostenibile; e l’altra, che sembra più lodevole, che non valga niente di meglio. Quindi egli crede, che Orazio con frigidus avesse voluto esprimere la stravaganza di un pazzo, che per acquistare reputazione, e passare per un Dio, cerca una morte, la quale egli non lascia di temere, e che coll’avvicinarsi agghiaccia tutti i suoi spiriti. Io poi non so a che tante giravolte; quando si può semplicemente dire, che sia un contrapposto di ardentem: giacchè nell’atto, che un sì gran monte ignifero è nella sua piena conflagrazione, volersi trovare persona, che se gli voglia approssimare, senza distinguere, o pure sprezzando gli evidenti pericoli, questi è da dirsi, o che abbia un gran sangue freddo, o per parlare più sanamente, che sia nel più alto grado di mattìa. Ond’è, che le due spieghe si possono benissimo conciliare.