Carlo Paolino XII

Riportiamo di seguito alcune note tratte dagli otto tomi delle “Opere di Orazio” scritte da Carlo Paolino, per permettere di valutare la maturazione del pensiero dell’Autore rispetto a quanto già osservato nelle note riferite alla spiegazione dei versi delle Commedie di Terenzio.

Note tratte dal Testo: “Le Opere di Orazio” di Carlo Paolino

– Siccis oculis.  M. Bentlei, M. Cuningam, e’l P. Sanadon si sono fortemente impegnati di mutare la lezione di siccis… Or io volentieri accorderei loro quanto essi vogliono, quando apportassero un solo Codice, o manoscritto antico, in cui si fosse mai letto altrimenti, che siccis; o pure la loro correzione facesse nel testo un senso più plausibile, o un senso diverso. Siccis oculis si è stimato ben detto dal tempo di Orazio fino al tempo di cotesti Critici; cioè dal tempo della perfetta latinità, fino al tempo della barbarie, e nessuno dei grandi Autori Latini dopo Orazio stimò mai doversi mutare: ed ora che la Latinità dee apprendersi sopra questi medesimi autori, si ha l’ardire di mutare senza ragione certa ciò, che i medesimi han detto? Cotesti critici non mutano solamente, torno a dire, quel, che Orazio ha detto; ma lo dicono anzi con minor’energia, e con minor’eleganza. (Tomo I, Libro I, Ode 3, nota 18).

– Ad Sextium.  Il P. Sanadon rapporta in questo luogo, che uno de’nuovi commentatori di Orazio, cioè Giovanni du Hamel, ha osato avanzare, che un verso di sette piedi è nella poesia lirica una specie di mostro…e non ha avuto difficoltà di dividere questo lungo verso di Orazio nella seguente guisa in due parti:

Solvitus otris hyems grata vice
Veris, et Favoni

Cruchio, seguita egli, avea prima azzardata l’istessa divisione… e che così Terenziano Mauro, e Boezio gli hanno composti. Ma , se questo solo bastasse ad autorizzare un simile cambiamento, saremmo egualmente tutti nel diritto di fare lo stesso in tutt’i versi così lunghi, potendosi ridurre in due piccioli, il che non credo potersi seriamente proporre. Piuttosto adunque è mostruosa questa divisione, ch’egli intraprende di stabilire. Ed io ho l’ardire di affermare, che pochi intendono ciò, che dicono in queste materie, e che alcuni trattano minuzie di grammatica, per risparmiarsi la pena d’intender le cose, o di evitar la vergogna d’ignorarle. (Tomo I, Libro I, Ode 4, nota 1)

–  Brevis rosae flores amoenos.  Che orecchie fine! Che gusto delicato! Che armonia sorprendente! Il P. Sanadon , seguendo Cuningam, adotta la correzione, che in questo luogo propone Van der Beken. Vuole, che in vece di “Breves flores amaenae ferre jube rosae” si debba porre “Brevis rosae flores amaenos”; soggiungendo, ch’egli stenta a credere, come Orazio abbia potuto l’una dopo l’altra mettere queste consonanze “breves flores” vicine a queste quattro altre “amenae ferre jube rosae” quando potea ciò facilmente evitarsi. Io non so , come a cotesti delicati gusti non sia venuto in testa di correggere Virgilio, ed altri sommi poeti, e tante altre consimili consonanze, che si trovano, non dico, ne’ poeti, ma anche ne’ prosatori come Cicerone. Quindi io non fo altro, che appellarne alle orecchie italiane; la cui lingua, come figlia della latina, la più legittima, e naturale, ad essa più, che ogni altra oltremontana, e spuria nel suono, e nella dolcezza si avvicina, e si risomiglia, e meglio di chiunque può giudicarne. (Tomo II, Libro II, Ode 3, nota 13 )

– Ocyor cervis. Io non voglio entrare nell’esame , se l’imitazione, che Mr. Huet ha fatto di Orazio sia in meglio; il che non mai farei per concedergli; ma solamente vo far vedere il marcissimo sproposito, che si fa uscir di bocca, dicendo, che Orazio avrebbe migliorata la sua espressione se avesse detto “Ocyor nimbis, et agente nimbos, ocyor Euro”…E sarà sempre vero, che gli Oltramontani, come barbari nella nostra lingua, diversa intieramente dalle culte Greca, e Latina; non potranno di queste esser mai gli giudici competenti.( Tomo II, Libro II , Ode 16, nota 23)

–  Hic unde vitam ecc.    Qui Mr. Dacier ha stimato così insoffribile la correzione di Mr. Bentlei di Hic in Hinc, che non ha giudicato degno di risponderci. Il medesimo Critico, per sostenere una tale correzione coll’autorità di dieci manoscritti leggeaptius per inscius; e ‘l P. Sanadon, col medesimo uniformandosi, dice, che a queste due correzioni è stato necessario aggiungersi la terza ch’è di frapporre la congiunzione et tra pacem, e duello. Ed ecco in un verso e mezzo di Orazio fatta una metamorfosi, la più orrorosa, e stravagante, togliendone quel, che vi ha di più bello, e sostituendovi le loro stortaggini… Questi savi Critici, volendosi mostrare nelle Latine Lettere molto intendenti, mostrano anzi quanto ne siano digiuni…(Tomo III, Libro III, Ode 5, nota 37)

– Caput ejus.  Il fino gusto dei moderni critici ha trovato che ridire intorno alla voce ejus, che si riferisce a caput del Cerbero. Orazio, dicono essi, non ha mai usata la voce ejus in alcuna oda, che non sia nel senso distributivo, e non fosse seguita dal relativo qui. Dicono inoltre, che illanguidisce il verso in mezzo ad un sì bel pezzo di Poesia, e che sia dell’intutto inutile… Io non posso non ammirare  un gusto sì delicato, ed un sì raffinato orecchio di cotesti Critici intorno alle cose latine. Senonchè credo, che sia piuttosto una disgrazia del loro stomaco originata in tutti da chi di essi ha il primo sofferto un tale incommodo. Io confesso  non essere di uno stomaco così gentile, che senta questa nausea. Qual ragione è quella, che perché Orazio non ha usata così altrove una tal voce, perciò non possa neanche usarla in quest’oda? Quando non è già un errore né di sintassi , né di senso? Quando Orazio n’è autore, il cui gusto dee esser sempre preferito in tale materia a quello di tutti gli otramontani uniti insieme? Quando tutti essi non han potuto trovare un’espressione migliore?(Tomo III, Libro III, Ode 11, nota 19)

– Ardens urit.    E’ cosa da non credersi con quanta audacia, e presuntuosità si fa qui Bentlei a parlare contro Orazio, e contro la poc’avvedutezza di Scaligero per la Tautologia di ardens urit uniti insieme… Qui quadra a meraviglio la favola XIV del lib. III di Fedro, dov’Esopo vien deriso da un’ignorante Ateniese, perché si era messo a giocare alle noci coi ragazzi. Se Orazio, e Scaligero fossero vivi, senza dubio domanderebbero a Bentlei che cos’è tautologia. Dio immortale! È cosa nota ai bamboli la differenza, che passa tra ardere, ed urere, e tra ardens, ed urit : e se da lor si domanda, senza esitazione rispondono, che l’azione di ardere resta in se stessa, ed è intransitiva; e quella di urere passa in altro. E perciò in questo luogo di Orazio ardens è un epiteto di Vulcano, il qual è il fuoco stesso, che arde, ed infiamma; ed urit nota il passaggio di questo fuoco nella materia, che vuole accendere. Qual tautologia in ciò si trova? (Tomo I, Libro I, Ode 4, nota 8).

– Repetantur.     Se M. Dacier avesse ben considerato l’etimologia di  peto, avrebbe avvertito le varie significazioni di peto e direpeto, e non gli avrebbe apportato meraviglia, che un solo verbo animi quattro espressioni diverse. E se la sua Lingua Francese avesse alcun nerbo, alcun torno, alcun periodo, e non avesse bisogno di terminare un discorso appena dopo essersi incominciato, non gli sarebbe sembrato così difficile di trovare sette semiversi, non già versi, com’egli li chiama, che da un solo verbo dipendono. Potrei produrne molti esempi, ma spiacemi di tediare i leggitori con cose non confacenti al fine che si ha nelle note.(Tomo I, Libro I, Ode 9, nota 22)

–  Sylvis.   Credeva il P. Sanadon aver colto Orazio in fallo, ma ve lo ha colto in iscambio, e mentre pensava farsi onore, per grave abbaglio si discredita…ha preso “coma” per un nominativo, quando conoscono i ciechi essere un ablativo… apparisce chiaramente che a tali inconvenienti debbono soggiacere coloro i quali nelle cose di Filologia , non curano distinguere, né le originazioni delle voci, né la loro primaria significazione. (Tomo II, Libro I,  Ode 21, nota 8)

– Cervicem roseam.     Mi dispiace sommamente di dovere spesse volte mettere bocca contra certi luminari della letteratura, qual si è appunto Scaligero. Egli biasima l’espressione Cervicem roseam   di Orazio, senza poco, né punto badare, che le rose son di vari generi, e di vari colori. Ve ne sono di un colore rosso perfetto, e il colore di queste nella cervice, o collottola, nella faccia, o nelle gote, e nel viso di uomo, o di donna, sarebbe mostruoso. Ve ne sono delle bianche perfette, e questo colore non farebbe un migliore effetto. Vi sono poi quelle, il cui colore è un misto di rosso, e di bianco, che diciamo vermiglio; e questo è il colore sommamente conveniente, vago, bello, piacevole, dilettevole ne’volti, e sembianti degli uomini, e delle donne.  (Tomo I, Libro I, Ode 13, nota 2)

–  Melior.     Mi lusingo di non far cosa dispiacevole, se apporto qui l’etimologia del comparativo irregolare melior, intorno alla quale molti han diversamente pensato. Imperciocchè  S. Isidoro tira melior da mollis, quasi dicesse mollior, perché is melior, dic’egli, qui minus durus, ac ferreus. Perotto lo deriva da mel, quasi mellitior, ac dulcior. Scaligero, e Nunnesio dal comparativo greco αμεινων significante melior, e ciò per l’aferesi della vocale a, colla conversione della lettera Ν in Λ, e colla metatesi delle stesse lettere: oppure da μελει curae est, perché, dicono, id melius , quod magis placet. Vossio finalmente inclina a dedurlo damavolo, lo stesso che malo, e dice, che da mavelis viene melius con farsi una sincope della vocale a, e la metatesi delle altre lettere. Di maniera, che sia melius, ciò, che si vuole piuttosto; e si tiri perciò da malo, come il superlativo optimum da opto; ch’èquello, che sopra tutto si desidera. ( Tomo II, Libro I, Ode 33, nota 13 )

–  Quicumque mundi terminus obstitit.     Qui Bentlei, e Cuningam leggono “Mundo”. Gli segue Sanadon dicendo che così leggesi in un gran numero di esemplari; e che leggendosi Mundi, il poeta avrebbe dovuto dire obstabit, o pure obstiterit; laddove, avendo detto obstitit, ha inteso dire Quicumque terminus orbem terrarum habitabilem  clausit.  M. Dacier per contrario legge “Mundi”, secondo la lezione generale; e dice soltanto: ”Mr. Bentlei è molto lontano dal sentire la bellezza di questi versi, allorché legge quicumque mundo.” Io , cercherò dirne quel, che ne penso, ed appoggiarlo a qualche ragione, che mi sia possibile. 1) Il gran numero delle edizioni, che portano Mundo non debbono fare alcun peso, quando un numero assai maggiore di altre ottime edizioni leggono Mundi. 2) obstare per claudere , non si è letto mai in alcun autore. 3)mettiamo che Orazio lo avesse qui usato per claudere, quale ne sarebbe il senso? Imperciocchè questo termine, che osterebbe all’Orbe terracqueo, dovrebbe essere fuori di esso; e sarebbe una bellissima idea di Orazio quella, che i Romani avessero a far guerra a coloro, i quali son fuori della terra, e del mare (verisimilmente agli spiriti aerei); o all’aere, che l’orbe circonda, e rinchiude, o agli spazi immaginari di Epicureo; le quali cose tutte non gli permettono, che più si dilati, e s’ingrandisca. Se poi questi termini sono quegli del mondo istesso, chi non vede, che non obstant mundo, ma ne sono una parte, e concorrono a formarne un tutto? E perciò Mundo non sarebbe più un dativo, ma un ablativo con l’in sottinteso, che farebbe lo stesso senso del genitivo Mundi. Finalmente io, ed in questo autore, ed in Terenzio ho più volte dimostrato lo scambiamento solito a farsi dalli migliori autori tanto nei tempi, che nei modi; sicchè non mi stia bene qui addurne di nuovo gli esempi. Con ragione adunque il signor Dacier si ride di una tale correzione. (Tomo III, Libro III, Ode 3, nota 53)

– Trecentos pedes in agrum.  Mr. Cuningam, Wander Beken, e con essi Sanadon, leggono in agro, perché, dicono, si accorda meglio con in fronte. Io so molto bene, che qualche volta la regola dei Grammatici intorno alla sintassi della propesizione In si trova trasgredita; ma ciò è accaduto, o per errore dei copisti, o perché hanno usato l’in per qualche altra preposizione, che richiedea quel caso, il quale sembra non convenire all’in. Perciò io non mi apparterei giammai dalla regola generale, che dessi intorno a questa preposizione. Qui, dunque, perché in fronte nota il luogo dove si è presente, ha messo Orazio la in con l’ablativo, e l’ha messa poi coll’accusativo in agrum, perché dalla fronte, o sia dal luogo, che si considera come presente, si deve come partire, ed andare verso la campagna per misurare la lunghezza; di maniera, che in agrum è per agrum versus, come si sarebbe potuto anche latinissimamente esprimere.(TomoV ,Libro I, Satira 8,nota 12)

– Mater, te appello. Se si voglia un poco considerare la derivazione, ed etimologia di mater, si vedrà chiaramente, che bene a ragione chiama sua sorella con tal nome. Ella deriva dalla voce Dora ματηρ, e quella del verbo μαω, che significa vehementer cupio, desidero, ecc. Sicchè mater così nel Greco, che nel Latino è così detta dal gran desiderio e brama di bene, che ha per li figli, dal grande amore in somma, che ad essi porta. Or questo grande amore, e ardente desiderio del suo bene, Polidoro non lo riconosceva dalla sua genitrice, dalla quale era stato mandato via fin da piccolino in casa di sua sorella Iliona, dalla quale fu allevato, educato, e cresciuto; e ne riconobbe l’amore, e l’affetto più che di madre. Non senza ragione adunque così la chiama. Si legga la favola di Fedro Agno belanti ecc. dove fa dire all’agnello, Facit parentes benignitas, non necessitas. Cotesta favola sembra fatta a posta per togliere ogni difficoltà in questo luogo d’Orazio, e per dimostrare chi debban dirsi madri, e padri. (Tomo VI, Libro II, Satira 3, nota 64)

– Saepe catellam, saepe periscelidem. Qui Catella non significa una cagnolina, che le donne di qualità eran solite tenere, e per cui teneano anche una schiava, per averne la cura, detta perciò a cura catellae, come lo Scoliaste, Cruccio, Torrenzio, ed altri han preso; ma sì bene una catenella, onde fermavansi gli ornamenti da collo, detti collanae , e da braccia, detti armillae; che consente con periscelidem, che significa ornamento da gambe, o sian legaccie, che le donne libere soleano portare, per far comparire le gambe ben fatte, e disposte. Ed è il diminutivo di catena; onde nasce catenula, e catella, siccome da vinum,vinulum, e villum; da catinus, catinulus, e catillum ecc(Tomo VII,Libro I, Epistola 17, nota 55).

– Et  diludia posco. Qui il P. Sanadon legge deludia, pretendendo di aver dimostrato sopra Plinio, che i Latini diceanodeludere, onde fassi deludium, per cessare dal gioco, astenersene per qualche tempo. Senonchè io credo, non aver’egli mai ben riflettuto al gioco delle diverse particelle nella composizione delle parole. La preposizione De significa sempre la perfezione dell’atto, e non mai dilazione di esso, come può vedersi in defungor, e defunctus; in decedo, demigro, demo, che vien da de edemo, cioè εμοω, desumo, deprehendo ecc. Ma la particella dis in composizione, o significa diversità dell’azione, come qui indiludium; in differo, che significa in diversus fero; e in aliud tempus fero, ch’era appunto quel, che faceasi col diludium, che nel gioco dei gladiatori significa propriamente dilazione che a’gladiatori si dava, dopo la quale ripigliavano il combattimento. Sicchè non debbe dirsi deludium, che significherebbe l’intiera cessazione, il fine. (Tomo VII, Libro I, Epistola 19, nota 48).

– Ubique. Mr. Bentlei asserisce doversi leggere ubive. E  Cuningam, e Sanadon lo seguono, e dicono essere una correzione necessaria. Ma s’ingannano a partito; e’l loro errore nasce dal non essere soliti a considerare la proprietà delle parole. Il que,che uniscesi in fine delle parole, e che i grammatici dicono far le veci di et, non è sempre una congiunzione, la quale unisce una cosa, o un discorso col precedente; ma sovente è lo stesso, che aeque atque; di maniera ,che faccia un discorso a parte, e disgiunto dal precedente; ed in questo luogo possa dirsi aeque atque ubi ecc. (Tomo VI, Libro II, Satira 2, nota 84)

– Si longo sermone ecc. Né Dacier, né Sanadon hanno bene afferrato il senso dell’autore. Peccem non significa peccherei(com’essi l’intendono) contro il pubblico vantaggio; ma è un potenziale, che spiegasi debbo peccare, o par che si pecchi ecc. Emorer è un potenziale altresì, che debbe spiegarsi , se ti tratterrò; se debbo, ed ho a trattenerti, o trattenendovi ecc. E la particella sinon è qui condizionale, ma determinativa di ciò, che fa; sicchè valga lo stesso, che dum; spiegandosi mentre mi è bisogno trattenervi in lungo ragionamento. Ciò si conferma, che Orazio non dice peccarem, e morarer. (Tomo VII, Libro II, Epistola 1, nota 4).

– Insignem tenui fronte.    Scaligero biasima un tal gusto dei Greci, e Latini per la fronte angusta, perché forsi non curò d’indagare donde tal gusto, che ora non si ha più, fosse in loro potuto provenire. Io perciò, avendovi molto riflettuto, trovo, che per due cagioni si fosse potuto avere una tale idea di bellezza nella fronte piccola, e angusta. La prima si è, che, come la fronte suol’essere nell’età puerile coverta di capellucci, e lanugine, che l’adornano, e le aggiungono una naturale grazia nel tempo istesso, che la rendono piccola; ha perciò la sua picciolezza lasciata nelle menti degl’uomini l’idea della fanciullesca , e giovanile grazia, che nei ragazzi si ravvisa; e quindi non l’angustezza della fronte, ma la cagione di tale angustezza, cioè il fiore dell’età, e della gioventù eccitava in loro l’idea della bellezza. La seconda, perché, essendo la fronte quella, che mostra, ed in cui si leggono tutt’i nostri pensieri, e le nostre passioni, perciò la fronte angusta, e coverta di capelli, altro non dimostra, se non il pudore, e la verecondia, che nelle donne, e nei ragazzi, è l’unica virtù, la quale gli rende degni di ogni lode, ed amabili. …( Tomo II, Libro I, Ode 33, nota 5)

– Celer.  Non vuole Sanadon rendersi persuaso, che gli grandi autori Latini, e Greci, non han fatto consistere la grazia e la bellezza della lingua in sì picciole, e lievi bagattelle, quali son quelle da lui nella precedente nota apportate, ma nel nerbo, e grandezza dell’espressioni, e delle cose che dicono. Ecco, ch’egli medesimo confessa, che i poeti Latini non facevano alcun caso di tali ripetizioni, e poi vuol mangiarsi il porro per la coda, regolar la Lingua Latina bella, e maestosa, dalla barbara,  e più infelice figlia di essa (Tomo II , Libro II , Ode 7, nota 13)

– Alcuni critici non possono soffrire che gli uomini grandi dell’antichità siansi così  liberamente vantati di essersi per li loro scritti resi immortali… Io confesso che questa maniera di lodare se stessi, sia ardita e non riuscirebbe a molti oggidì; ma non si debbon pertanto su tale pretesto condannare Virgilio, Orazio, Ovidio ecc. Ecco tre riflessioni per guarire gli scrupoli di costoro:La prima si è, che i Poeti sono, a parlar proprio, tanti Profeti… La seconda, che uno dei caratteri dei grandi uomini si è di rendere a se stessi quella medesima giustizia ch’essi fanno agli altri, e di essere persuasi, che come è un segno di poco spirito il non conoscere se medesimi, così sarebbe un segno di poco coraggio il non osar dire liberamente ciò, che vi è, allorché si conosce. La terza che rinchiude le altre due si è, che tutti coloro, i quali scrivono, debbono avere un nobile orgoglio, e credersi capaci di cose grandi… Da ciò si vede, che produrre il grande, e sublime, bisogna necessariamente credersene capace. (Tomo II, Libro II , Ode 20, nota 1)

– Natus mare citra.    Qui Mr. Dacier prende occasione di biasimare coloro, i quali coltivano la composizione Latina; e ‘l P. Sanadon fa una, quasi dissi, lunga dissertazione, per mostrare il contrario; cosa niente a proposito per una nota, e molto ristucchevole. A me sembra, che Orazio non condanni coloro, i quali esercitavansi nel Greco, ma quei , che senza mancar le voci, o l’espressioni Latine, voleano tramischiar le Greche per una vanità, e per mostrare, che  sapevano il Greco. In fatti, se Cicerone, Virgilio, Orazio istesso, e tanti altri autori del secolo di Augusto, non fossero stati lungo tempo in Atene ad apprendere, e la lingua, e le scienze, non sarebbe la lingua latina rimasta nella primiera sua orrorosità, e rozzezza? Il fatto adunque dimostra ciò, che intende Orazio dire. Le lingue figlie debbono adottare, e ritenere le vaghezze e bellezze delle loro madri; ma non ad altro fine, che per rendersi elleno a quelle simili, e perfette; e questo accade anche nella nostra favella Italiana, la quale ha più, che ogn’altra, ritenuto la bellezza della madre Latina.(TomoV ,Libro I, Satira 10,nota 31)

– Os tenerum fueri, balbumque poeta figurat.   Intralasciando la lunga nota, che fa qui Mr. Dacier piena di erudizione Greca, e Latina, ma poco confacente all’intelligenza di Orazio, dico solo, che la lettura dei poeti è per li ragazzi (de’quali gli organi della loquela sono teneri, e pieghevoli) la più propria a far, che profferiscan le parole chiare, e rotonde, senza balbutire, e coll’accento lor proprio, e conveniente. Quindi così i Greci, come i Latini, da principio facean ad essi leggere le Favole dei poeti, per apprenderne in un medesimo tempo anche le sentenze, e la morale: e quindi è ancora, che Orazio dice, os tenerum pueri , balbumque poeta figurat, che il poeta insegna i ragazzi a saper muovere la lingua, e le labbra, e conformarle in guisa cogli altri organi del favellare, che ne risultino la voce, e gli accenti chiari, spiccati, e non balbuzienti; perché figurare os altro non è, che conformare, e dar la figura, e la forma agli organi della favella. (Tomo VIII, Libro II, Epistola 1, nota 126).

– Prima dicte mihi, summa dicende camoena.  …A me sembra, che Orazio con prima Camaena abbia voluto intendere la poesia, ch’esprime semplicemente le cose dettateci dalle nostre passioni, e dalla Natura istessa sin dalla prima età nostra, e conSumma Camaena abbia inteso quella poesia, che tratta delle cose morali, che da noi non si sanno, se non per mezzo di un lungo studio del cuore umano, né si acquistano, se non tardi, e con somma fatica, ed applicazione. Perciò le nostre passioni son le prime a conoscersi col canto, e le verità morali, regolatrici delle nostre azioni, sono le ultime. Così intendendosi si rimuove ancora l’opposizione di essere  state fatte alcune ode dopo le Epistole, ed alcune Epistole dopo le Ode. (Tomo VII, Libro I, Epistola 1, nota 1).

– Virorum.    Una delle cagioni, per cui Mr. Bentlei ha fatto una correzione così male intesa, si è stata certamente, perché Orazio ha dato il nome di virorum agli eunuchi, i quali erano, dice egli, mostri, non uomini, né donne, e senza il minimo valore, o virtù, onde potessero essere chiamati viri, cioè a dire eroi, prodi, valorosi. Ma s’egli avesse per poco considerato, che questi erano appunto i prodi, i comandanti, gli eroi dell’armata di Cleopatra, si sarebbe accorto, che Orazio con tale nome gli appella, per mettergli in derisione, e per mostrare qual’era il nerbo degli Egiziani. Vi si dee perciò riconoscere una speciosissima ironia. ( Tomo II Libro I,, Ode 37, nota 10 )

– Fulmine caduco.    Quanto più miseranda cosa è ridersi di altrui, e non saperne il perché? Prender la mira, e non colpire al segno! Dacier si ride di Bentlei, e ne ha tutta la ragione, ma non l’assegna. Sanadon sembra metterlo in berlina, e ne dà una ragione, che non è ragione. Perché? Non prendon di mira il vero segno. Mille volte ho io detto, che quando si voglia comprendere il vero senso dei Classici autori Latini, uopo è attendere alla vera etimologia, ed origine delle voci.(Tomo III, Libro III, Ode 4, nota 44)

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