Carlo Paolino (1723 – 1803)
Matteo, Giuseppe, Carlo Paolino, figlio di Angelo e Veronica Oliva nacque a Papasidero il 4 Settembre 1723.
Probabilmente per interessamento del padrino di battesimo, Dott. Tommaso Corigliano di Castrovillari, marito di Vittoria Siniscalchi, fu affidato alle cure didattiche del Canonico Antonio d’Aronne che, rientrato da Napoli, aveva aperto una fiorente scuola a Morano Calabro, sua città natale.
Prima di proseguire con le vicende che interessarono il nostro personaggio, conviene soffermarsi sulla dimensione culturale del suo maestro, che lasciò un’impronta indelebile nella sua formazione.
Antonio d’Aronne nacque a Morano Calabro all’inizio del 1700. Studiò nel seminario di Cassano e, ancora giovane, si recò a Napoli dove frequentò la scuola di Gianbattista Vico. Di lui parla Gaetano Scorza in “Notizie storiche sulla città di Morano” Napoli, Tipografia e Libreria della Sacra Famiglia, strada Trinità Maggiore, 42 -1876, pp.101-104:
“D. Antonio Aronne Canonico della chiesa della Maddalena, di cui era lo splendore e l’ornamento, fu uno dei più grandi uomini dello scorso secolo, e fu uno di quelli cui la Provvidenza destina ad irradiare le menti altrui. Alle fatiche, ed a’ meriti di questo grand’uomo va debitrice la Diocesi di Cassano del gran numero di dottissimi soggetti che ne hanno formata la gloria, e che furono educati alla sua scuola. D. Carlo Paolino, suo discepolo, nelle annotazioni che fa alle poesie di Orazio tradotte in italiano e pubblicate per le stampe ne rende la più chiara testimonianza, parlando sempre di lui con altissimi encomi nelle note all’ode 2 del II libro al verso 6 sulle parole
Vivet extento Proculeius aevo
Notus in fratres animi paterni
e nella nota al verso 6 dell’Ode 15 dello stesso libro sulle parole: Omnis copia narium lo chiama: il più gran filosofo in materia di lingua. Testimoni della stima in cui era tenuto da’ grandi letterati, sono una lettera di Giovanni Lami, il quale lo ringrazia per avergli mandata la sua dissertazione contro l’abate Genovese, ed un biglietto di Marco Mondo che gli acchiude, per correggerla, una sua iscrizione pel marchese di Acquaviva D. Alfonso Carmignano.
Era egli non solo teologo, ma filosofo e filologo profondo. Pubblicò pe’tipi di Giuseppe Raimondi in Napoli 1760 una dissertazione contro l’abate Genovesi, ch’è quella appunto di cui parla Lami. Abbiamo di lui manoscritto un trattato di Logica ed Etica, e di Metafisica in lingua latina, ove si vede sempre il pensatore profondo, ed il cristiano filosofo. Lasciò ancora la sua traduzione di Terenzio, di Orazio, di Cornelio Nepote, e di Tito Livio, nonché molte sue lettere italiane e latine. Sarebbe cosa utilissima che non rimanessero più inedite queste dotte opere.
Ha lasciato ancora la sua grammatica della lingua latina, di cui nella prefazione alla sua dissertazione di sopra menzionata, dice aver pubblicati solo sei fogli. Egli riduce a tredici tutte le regole della sintassi, persuaso che per bene apprendere la lingua v’ha mestieri di poche regole e di molto esercizio, come dice il signor Rollin, essendo l’esercizio una grammatica parlante. La grammatica però del nostro Aronne è tutta filosofica, e come dice egli stesso, è una scienza che non distinguesi dalla Logica, se non in ciò che questa è universale, e quella è particolare. Per ben conoscere il merito di questa grammatica, basta leggere il giudizio che ne dà il profondissimo Vico, il quale è il giudice più competente in siffatte materie. Il quale giudizio va stampato in fronte alla citata dissertazione contro Genovese, ed è del tenore seguente: ” ma il quanto acuto , tanto avveduto autore di questa novella Grammatica ha ridotto tutte le maniere di pensare che nascere mai possono in mente umana intorno la sostanza e le innumerevoli varie, diverse modificazioni di essa a certi principi metafisici così utili e comodi che si ritrovano avverati in tutto ciò che la grammatica latina propone nelle sue regole, e nelle sue eccezioni. Il frutto di una siffatta grammatica è grandissimo, perché il fanciullo senz’avvedersene, viene informato di una metafisica, per dir così, pratica, con cui rende ragione di tutte le maniere del suo pensare: appunto come colla Geometria i giovani, pur senz’avvedersene, apprendono un abito di pensare ordinatamente. Per tutto ciò, secondo il mio debole e corto giudizio, stimo questa grammatica degne della pubblica luce, siccome quella che porta seco una discoverta di grandissimi lumi alla repubblica delle lettere.”
Sulla pubblicazione della Grammatica Filosofica di Antonio d’Aronne torneremo in seguito, attingendo notizie dagli scritti di Carlo Paolino.
Cogliamo ora un altro aspetto della personalità del suo maestro, estrapolandolo dal testo: “Le ragioni culturali della Rivoluzione del 1799 in Calabria” di Spartaco Pupo edito da Pellegrini Editore – Cosenza 1999.
Il Pupo afferma che ” Nelle poche scuole della Calabria alcuni maestri diedero avvio alla circolazione , tra gli allievi, di opere di carattere teologico, che trovavano l’interesse dei giovani, contribuendo così al menzionarsi di testi sino ad allora sconosciuti perché posti tra gli scaffali impolverati di qualche biblioteca privata…. Ad essi andava il merito di mettere i giovani in condizione di discutere tra di loro su argomenti fino ad allora del tutto sconosciuti, di scambiare qualche libro , che prima era esclusivo privilegio dell’elite dei dotti ecclesiastici. In questa direzione si muoveva maggiormente l’opera d’insegnamento di Antonio d’Aronne che era stato allievo del Vico e uno di quei pochi uomini di cultura che al ritorno da Napoli aveva voluto aprire una scuola in Calabria. A Morano, infatti, impartiva lezioni private ai giovani figli della borghesia e della nobiltà. Scrisse una Grammatica filosofica della lingua latina, di cui non si conosce il contenuto, ma si sa per certo che in essa l’autore, da buon conoscitore delle lingue classiche, tentò di elaborare una nuova teoria per l’insegnamento della lingua latina, attraverso una grammatica, appunto, che introducesse alla metafisica, in senso però “pratico”. E’ probabile che il d’Aronne abbia sperimentato questa teoria proprio nella sua scuola, ma non esiste alcuna testimonianza in merito… La Grammatica è significativa di quello che doveva essere il suo obiettivo principale: la modernità delle forma d’insegnamento.”
Che il d’Aronne abbia sperimentato nella sua scuola di Morano l’uso della sua Grammatica Filosofica è, invece, provato dagli scritti del suo allievo Carlo Paolino che contengono riferimenti espliciti alle regole elaborate dal suo maestro e di cui si servì per confutare interpretazioni di brani classici fatti da critici di chiara fama.
Dal suo maestro, Carlo Paolino ereditò certamente l’amore per lo studio delle lingue. Divenne, infatti, profondo conoscitore delle lingue latina, greca, ebraica, aramaica, dell’inglese e sopratutto del francese.
Introdotto nell’ambiente culturale napoletano dalle conoscenze del maestro, subito s’impose per la sua vasta preparazione linguistica e divenne precettore ricercato dalle famiglie nobiliari vicine alla corte dei Borboni.
Il suo nome compare per la prima volta nel testo religioso di Gabriel de l’Aubespine, vescovo di Orleans dal titolo: Gabrielis Albaspinaei Aurelianensis episcopi Opera varia. 1. De veteribus Ecclesiae ritibus, observationum libri 2. 2. Notae in Concilium Eliberitanumquosdam alios antiquos canones, & aliquot Tertulliani libros. 3. L’ancienne police de l’Eglise sur l’administration de l’Eucharistie, & sur les circonstances de la messe. Divisee en deux livres. … Accedit ejusdem Albaspinaei Elogium, auctore Carlo Paulino
Edito a Napoli nel 1770, alle pp. III-XIV contiene una narrazione latina della morte dell’Aubespine stesa, appunto, da Carlo Paolino.
Nel 1774 Carlo Paolino ricevette la licenza di aprire una scuola privata di belle lettere, umanità e retorica. L’attestato era contenuto nel fascicolo dell’Archivio Storico di Napoli, Cappellano Maggiore, Varietà, vol. XII citato nel testo di Alfredo Zazo : “L’istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860)” edito dalla Casa editrice “Il solco“, Citta di Castello- 1927, a p.25 che, però, attualmente non risulta reperibile a seguito dei danni subiti dall’Archivio durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tra i suoi allievi sono da annoverare il Marchese Francesco Taccone di Sitizzano che ricoprì la carica di Tesoriere Maggiore del Regno di Napoli e Presidente della Regia Camera; fu anche collezionista di opere d’arte, di libri e manoscritti rari, e riordinatore della Biblioteca borbonica e,inoltre, i figli del Marchese di S. Nicola de’ Capograssi per cui aveva tradotte e commentate le Commedie di Terenzio che, su insistenza di autorevoli studiosi dell’Università, si convinse a pubblicare nel 1782,
dopo aver dato alle stampe l’anno prima (1781) la Continuazione della Storia ecclesiastica di monsignor Claudio Fleury… Fatta dal signor Francesco Murena e tradotta dal francese dal sacerdote Carlo Paolino. Tomo vigesimosettimo, dall’anno 1596 all’anno 1750; Edito a Napoli a spese di Antonio Cervone.
Il frontespizio sopra riportato conferma ancora una volta la profonda conoscenza della lingua Francese da parte di Carlo Paolino attestata dall’Editore Antonio Cervone che non esitò ad affidargli il delicato compito ” di tradurre dal Francese nel nostro Idioma Italiano colla maggior pulizia, e fedeltà possibile…“, l’opera di cui sopra.
La pubblicazione delle sei Commedie di Terenzio in tre Tomi, rispettivamente di 431, 510, 500 pagine, rappresenta il salto di qualità che legittima in modo definitivo l’appartenenza di Carlo Paolino al novero degli umanisti napoletani della seconda metà del settecento.
Riportiamo nella pagina collegata la dedica della sua Opera al Principe di Scalea Antonio Spinelli.
D. Antonio Spinelli era figlio di Francesco Maria Spinelli (1686- 1752), VII Principe di Scalea e X Marchese di Misuraca, che si formò alla scuola di Gregorio Caloprese e divenne letterato e filosofo illustre, autore, tra l’altro, del testo “Riflessioni filosofiche” nel quale confuta le tesi di Paolo Mattia Doria espresse, a sua volta, nel suo testo: “Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni”. Le “Riflessioni” di Francesco Maria Spinelli sono richiamate dal Paolino nella sua dedica ad Antonio delle Commedie di Terenzio.
Il Primo dei tre tomi dell’Opera prosegue con la prefazione: “All’amico lettore” in cui l’autore spiega le motivazioni, i criteri e i fini perseguiti.
Conviene subito sottolineare lo scopo, non consueto tra i letterati dell’epoca, che il Paolino si prefigge licenziando alle stampe i tre tomi delle Commedie di Terenzio: quello di cercare metodi didattici innovativi ” per giovare quanto posso alla gioventù di questa società in mezzo della quale da me si vive; e se pur lo sono, non comparire almeno, un membro disutile tra coloro, da’ quali tanti vantaggi io ricevo“; un’esplicita dichiarazione d’intenti alla quale dedicherà tutte le sue energie e tutte le sue competenze, in continuazione con la via già tracciata dal suo maestro Antonio d’Aronne.
Anche la tecnica editoriale risultava, se non innovativa, almeno inconsueta: testo latino e traduzione in prosa a fronte e note, numerosissime note sottostanti, come si evince dalla riproduzione che segue:
Il chiarimento del senso, oltre alla traduzione, era affidato al suo commento nel quale coinvolge il pensiero di una miriade di critici a lui coevi e non. Nelle sue note, infatti, compaiono i nomi di Elio Donato, Censorino, Prisciano, Aurelio Vittore, Publio Nigidio Figulo, Elenio Acrone, Marcello Nonio, Varrone, Ulpiano, Servio, Eugrafio, Marco Valerio Probo, S. Isidoro, S, Girolomo, S. Agostino, oltre ai più recenti Giulio Cesare Scaligero, Marco Antonio Mureto, Gabriele Faerno, l’erudito inglese Adam Littleton, Lambino, Giovanni Minellio, Cafaubono, Gujeto, Gerardo Vossio, Nicolò Perotto, Gianarrigo Boeclero, Cornelius Binkershoek, Tommaso Farnabio, Vielingio, Ugo Grozio, Iacobo Gronovio, Tanaquillo Fabro, Roberto Stefano, Paolo Manuzio, Giovanni Fabrini, Giovanni Calfurnio, Orazio Tursellino, Odoardo Biseto, Adriano Turnebo, Claudio Salmasio Goveano, Gaspare Bartio, Giovanni Francesco Fabrini, Giovanni Alberto Fabricio, Jacopo Facciolati, Alessio Simmaco Mazzocchi, ma sopratutto Anna Fabbri, nota anche come Madame Dacier (1654- 1720), figlia del grecista Tanaquil Faber e moglie del filologo Andrè Dacier. Ella, oltre a tradurre Terenzio in lingua francese e dare la versione in prosa dell’Iliade e dell’Odissea, fu protagonista della rinascita della “querelle” tra antichisti e modernisti nei primi del Settecento. Carlo Paolino sembra avere, nei confronti di questa filologa e traduttrice francese, una certa predilezione; infatti la cita spessissimo nelle sue note, a volte esaltandone la profonda cultura, a volte riprendendola per alcune interpretazioni che a lui non sembrano appropriate, a volte concordando con lei.
L’atteggiamento del Paolino nei confronti di questa consistente schiera di critici, non è certamente di sottomissione, ma si erge a paladino di Terenzio contro i tentativi di mutilarne il testo, di stravolgerlo con pretese aggiunte o modifiche inopportune. Sceglie la traduzione in prosa “ per meglio intendere ed esprimere il senso dell’Autore” e per “far sì che le Italiane espressioni fossero alle Latine più corrispondenti” e aggiunge le note, numerosissime note, affinché “per mezzo di queste si può fare intendere la vera forza non meno delle parole, che dell’espressioni Latine, ove il genio della nostra Lingua a quello della Latina non ben si accomoda”.
Dichiara esplicitamente a chi è rivolta la sua fatica: “ non già per gli uomini culti…ma sì per la gioventù che brama di apprendere e d’intendere le Commedie di questo Poeta nel vero suo senso.”.
La sua Opera, quindi, ha un carattere prettamente didattico con un approccio innovativo che non ha molti riscontri in quel periodo. Egli pone l’alunno al centro dell’azione didattica e lo guida amorevolmente verso la comprensione degli Autori classici servendosi delle sue enormi conoscenze in campo linguistico e filologico. Questo suo atteggiamento risulta palese dal contenuto delle note che si rivolgono direttamente ai giovani per indirizzarli, spronarli, guidarli passo, passo nel loro percorso formativo. Egli ha ereditato dal suo maestro l’amore per Terenzio e la passione per lo studio delle lingue classiche intese come ricerca assidua della derivazione delle voci, una specie di filosofia del linguaggio che possa risolvere con semplicità problemi linguistici non ancora chiariti.
Nei tre tomi delle Commedie di Terenzio, l’Abate Paolino cita il suo maestro cinque volte in altrettante note che riportiamo nella pagina collegata.
Particolare interesse riveste la nota 26 del Prologo della Commedia “ La Suocera ” in cui il Paolino rivendica al suo maestro l’esatta interpretazione di un passo del de Officiis di S. Ambrogio contro i Canonisti che successivamente se ne attribuirono la paternità. Egli cita a testimoni importanti personaggi della sua epoca come D. Giuseppe Cirillo, revisore scientifico dellaGrammatica Filosofica scritta da Antonio d’Aronne e che stava per essere pubblicata sotto il nome di “Arte di parlare in Latino”, il Padre Gherardo De Angelis, Revisore Ecclesiastico della medesima Grammatica, D. Pasquale Ferrigni,Giudice della Gran Corte della Vicaria, l’Avvocaro D.Ignazio Parisi, D. Cristofaro Galizia , D. Antonio Pompejano e ilPaolino stesso, questi ultimi tutti ex allievi del d’Aronne.
In questa nota apprendiamo anche l’importante notizia che Carlo Paolino era in possesso dei Manoscritti della Grammatica Filosofica del suo Maestro e nella nota 10, Atto I, Scena IV del “Formione” , apprendiamo, inoltre, che il Paolino si fece carico della pubblicazione dell’Opera del maestro, viste le sue precarie condizioni di salute. Tali intenzioni, però, non trovarono seguito, ma è certo da queste testimonianze, che esistono i Manoscritti di questa Grammatica recensita da Giambattista Vico.
La preparazione umanistica di Carlo Paolino si andava sempre più consolidando e il grande successo della sua scuola privata ne era la più palese conferma.
La sua fama di filologo oltrepassò i confini del Regno di Napoli e ricevette pressanti sollecitazioni per estendere la sua ricerca filologica su altri autori latini. Egli resistette a queste richieste per tutto il periodo che rimase a Napoli e, cioè, fino al 1789 e continuò a resistervi per altri cinque anni quando si ritirò tra “le deserte rupi” di Papasidero, suo paese natio, anche lì sollecitato dagli amici dei paesi limitrofi e da quelli lasciati a Napoli.
Dopo queste reiterate insistenze, alla fine cedette e, fra il 1795 e il 1796, pubblicò, in ben otto volumi, le Opere di Quinto Orazio Flacco, con la traduzione italiana in prosa e le numerosissime note dei francesi Andrè Dacier, Nöel Etienne Sanadon e sue.
La scelta di Q. Orazio Flacco non fu casuale e non lo poteva essere in un secolo detto appunto “secolo di Orazio” per antonomasia.
Giulio Natoli individua due dei principali motivi della fortuna di questo autore latino nel settecento:
“Anzi tutto, il concetto oraziano della poesia, che deve mescolare l’utile al dolce; il concetto pratico romano dell’arte, necessario a una società che si rinnova, secondo il quale fine dell’arte è l’utile morale e sociale, mezzo di diletto, che nasce dall’eccellenza artistica. E poi la stessa perfezione artistica della poesia d’Orazio, che il Parini, in un’ode incompiuta,… chiama lucido esempio e guida d’ogni poetic’arte”.
Antonio Iurilli aggiunge: “Il dato quantitativo della fortuna settecentesca di Orazio non è meno importante di quello qualitativo, espresso com’è da opere e autori che, pur nell’effimero della loro durata, costituiscono un documento prezioso del riuso, all’interno di un sistema letterario ed editoriale, di un auctor , anche nella prospettiva di poter meglio definire aspetti non marginali di quel sistema”.
All’inizio del settecento fu pubblicato a Londra l’Orazio di William Baxter che prometteva congetture e integrazioni sia al testo degli antichi Scoliasti, sia a quello di Orazio stesso.
Seguì nel 1711 l’Opera di Richard Bentley che si dichiarava il massimo filologo di tutti i tempi e che propose un Orazio “migliorato in oltre settecento luoghi”.
Nel 1721 uscirono, all’Aia, i due volumi dell’Orazio di Alexander Cunningham ispirato a criteri conservativi, in aperta contrapposizione a quello del Bentley.
Tutte queste manipolazioni del testo Oraziano non s’imposero all’attenzione della maggior parte degli studiosi e l’Orazio che, invece, ebbe maggior credito fu quello, ben più conservativo che, a partire dalla seconda metà del secolo XVI, venne pazientemente elaborato da Lambino (1561), Daniel Heinsius (1610), Tanaquil Faber (1671), Andrea Dacier (1681-89) ed altri.
Su quest’ultimo filone s’inserisce l’Opera di Carlo Paolino, una ponderosa opera di ben 2645 pagine, corredata di ben 8092 note di cui: 5762 riferibili a Dacier, 978 a Sanadon e 1352 al Paolino.
La tabella che segue chiarisce meglio la distribuzione negli otto tomi delle note siglate col nome di Dacier, Sanadon e Paolino, secondo la tecnica del commento plurimo allora in voga:
I Tomo II Tomo III Tomo IV Tomo V Tomo VI Tomo VII Tomo VIIITomo Totale
Pagine 264+98 414 298 376 296 297 330 272 2645
Note di:
Dacier 411 628 843 1101 786 733 771 486 5759
Paolino 195 252 127 214 128 109 215 112 1352
Sanadon 164 222 106 109 97 93 93 94 978
Per quanto concerne i contenuti, questi sono così distribuiti:
Primo Tomo: Dopo la dedica a Tommaso Sanseverino e la lettera “All’amico lettore”, segue “La vita di Q. Orazio Flacco” scritta da Svetonio e da lui tradotta, poi “La vita di Orazio ricavata e composta sopra le sue opere, e digesta per anni dal P. Sanadon”, segue ancora la sintesi “Dei versi di Orazio del P. Sanadon e, finalmente, le prime venti odi del Libro I con testo latino e traduzione a fronte e le note sottoposte al testo e alla traduzione, edito nel 1795.
Secondo Tomo: Ulteriori diciotto Odi del Libri I e le complessive venti Odi del Libro II, edito nel 1796
Terzo Tomo: Le complessive 30 Odi del Libro III, edito nel 1796.
Quarto Tomo: Le complessive quindici Odi del Libro IV, le complessive diciotto Odi(Epodi) del Libro V e il Carmine Secolare, edito nel 1796
Quinto Tomo: Le complessive 10 Satire del Libro I, edito nel 1796.
Sesto Tomo: Le complessive otto Satire del Libro II. Contiene le richieste e le autorizzazioni alla pubblicazione: pp. 304 edito nel 1796. Di esso, recentemente, Google ha pubblicato l’e-book di cui riportiamo il riferimento: Le_opere_d_Orazio_con_la_versione_italia
Settimo Tomo: Le complessive venti Epistole del Libro I,edito nel 1796.
Ottavo Tomo: Le due Epistole del Libro II , l’Epistola ai Pisoni,edito nel 1796.
Egli opta per la traduzione in prosa, ritenuta più adatta a riprodurre il senso dell’Autore e la sua esercitazione letteraria si fonda sul testo francese a commento doppio edito nel 1735:
ANDRÉ DACIER-NOEL ETIENNE SANADON “Oeuvres d’Horace en latin, traduites en françois par M. Dacier, et le P. Sanadon. Avec les remarques critiques, historiques et géografiques, de l’un et de l’autre.”
Il Primo Tomo inizia con la dedica:
A S.E.S. Don Tommaso Sanseverino,
Tommaso Sanseverino (1759-1814) fu il XIII principe di Bisignano. Si rese benemerito della cultura ed in particolare di quella scientifica. Infatti, a contatto con Vincenzo Petagna (1734-1810), successore di Domenico Cirillo (1739-1799) alla cattedra di Botanica all’Università di Napoli e di Michele Tenore (1780-1861), celebre allievo del Petagna, divenne un vero e proprio studioso di Botanica. Arricchì il suo giardino di Barra con piante importate da ogni dove e creò una varietà di garofano che, da lui, prese il nome di garofano di Bisignano. Fu Consigliere di Stato, Gran Cancelliere dell’Ordine Reale delle due Sicilie e socio onorario della Reale Accademia di Storia e Belle Lettere.
Segue la lettera “All’amico Lettore” in cui il Paolino rende ragione della sua esitazione alla pubblicazione dell’Opera affermando che il motivo di questa resistenza era soprattutto di ordine morale e religioso, basato su pregiudizi che, di fatto, in precedenza, avevano impedito una pubblicazione integrale del corpus oraziano nei curricula scolastici.
Egli risolve il pregiudizio morale con la riflessione. Riflette sull’esito nettamente positivo della sua precedente fatica letteraria, sul sentimento morale al tempo dei Romani, sulla qualità delle sollecitazioni ricevute e giunge alla conclusione che non era il caso di presentare alle stampe un Orazio “castigato”.
Spiega il suo ruolo di organizzatore e supervisore del commento a tre ( lui, Dacier e Sanadon) : “ E per riguardo alle annotazioni, ho voluto principalmente valermi di quelle dei due ultimi interpreti i più moderni, e più rinomati, cioè di Mr. Dacier, e del P. Sanadon, e portarle per disteso. Eglino per lo più si trattengono a far note istoriche, mitologiche, cronologiche, e geografiche, le quali posson dare qualche luce per l’intelligenza dell’autore. Talvolta ne fanno anche filologiche, e grammaticali, le quali io credo le più utili, e confacenti al fine, di cui si tratta, di bene intendere la mente dell’autore. Ma in queste, non apportano altra ragione, che gli esempi di altri autori, o pure dell’istesso; né entrano quasi mai nell’etimologia delle voci, e nella loro originazione, ch’è il vero mezzo d’intendere a fondo ciò, che dagli autori classici si dice.
Io per contrario ho cercato aggiungervi queste, nelle quali da loro si manca, ed inoltre le note critiche, e filologiche, colle quali si dimostrano gli abbagli da essi presi non meno nelle interpretazioni delle voci, e delle espressioni del poeta, che nel vero di lui senso. Sicchè possa chiunque legge fare un retto e vero giudizio del senso del poeta… Ho poi in rapportare le note dei suddetti critici, per non rendere l’opera troppo voluminosa, usata questa economia. Quando le note di amendue sono state uniformi, non ne ho messa, che una, e per lo più quella di Dacier, il quale batte più al sodo, ed ha scritto prima di Sanadon: quando poi nell’una vi è stata qualche cosa di più, ne ho messa una intiera, ed aggiunto solamente il di più dell’altro: e quando sono stati di diverso sentimento ne ho rapportato uno, e detto in breve ciò, che l’altro ne sente in contrario; aggiungendovi il sentimento mio; o pure ho confutato l’uno, e confermato l’altro. Quando finalmente ho sentito diversamente dall’uno, e dall’altro, ho detto ciò, che ne sento io, e confutati amendue.”
Nelle note da lui siglate coinvolge tutta la critica coeva e si erge a strenuo difensore del gusto italiano perché: “ non è delle nazioni oltre i monti conoscere, e giudicar bene del suono, della dolcezza, e della vaghezza, così dell’accozzamento delle voci, e dell’espressioni, che delle voci, ed espressioni istesse; ma è questo un natural dritto della nazione Italiana, la cui lingua, come figliuola legittima della latina, come nudrita, e cresciuta sotto il medesimo clima e cielo, e come abbeverata del medesimo latte, ed alimentata del medesimo cibo; ha conservate tutte le proprietà, e bellezze di quella; ereditate le formole, e le maniere di esprimersi; e ritenuta la dolcezza, il sonoro suono, e la robustezza della madre. Non così le lingue oltramontane, le quali riconoscendo per loro principal madre la Teutona , ne han fatta una lingua ibrida, tramischiandola colla latina. Ond’è nato un linguaggio mezzano, che ritiene dell’asprezza, ed orrorosità della prima, e di una tale, o quale dolcezza, e piacevolezza della seconda: sicchè non siano capaci coloro, che la parlano, di ben discernere, e colla mente, e coll’orecchio ciò, che diletta, e ciò, che dispiace. Ed è ella una massima troppo vera, che qual è il clima, tale esser suole il costume, e la lingua.”
Per quanto concerne il modo di tradurre, egli dichiara: “Mi sono attenuto quanto più mi sia stato possibile alla parola, facendo esattamente corrispondere alle latine le italiane, quando queste vi siano state; e quando no, alle più vicine, più simili, e più usitate. Lo stesso ho fatto ancora nell’espressioni, e nelle frasi tutte, e maniere di parlare, affinché vedesse subito il lettore il senso di quel, che in latino si dice.”
Per rimanere coerente con la sua scelta didattica originaria di giovare alla studiosa gioventù, compie un’operazione di forzatura del linguaggio per limare alcune espressioni eccessivamente scurrili, operazione apprezzata dalla mentalità contemporanea, ma che ha influenzato negativamente il giudizio successivo sulla sua traduzione:“Ma per ovviare alla grave difficoltà delli giovanetti non ancora bene in queste assodati; che facilmente si fanno tirare dalle passioni, e ciecamente corrono dietro al vizio; ho usata una esatta diligenza di tradurre in Italiano quelle cose, che potrebbono esser loro d’incentivo alle ree passioni, in guisa tale, che non eccitino in loro quell’idee, ed immagini, che potrebbono ingombrare la loro fantasia… Mi lusingo adunque di aver con ciò molto giovamento recato alla studiosa gioventù, la quale non ha finora avuta una intera versione di Orazio, avendone quasi tutti troncato chi un pezzo, e chi un altro. Il che, a creder mio, ha sempre apportato maggior male, e pregiudizio al buon costume, per la innata curiosità, che ha ogn’uno di voler sapere ed attentamente indagare quel, che da altri con tanto studio si occulta; sicchè vi si fermino con maggiore attenzione, e meditino sul male, che possa rinvenirvisi.”
Queste scelte, infatti, sono apprezzate dalla critica contemporanea, come risulta dalle recensioni apparse sul “Giornale Letterario di Napoli per servire di continuazione all’analisi ragionata de’libri nuovi” Vol. LXII e LXXIV relativi all’anno MDCCXCVII ove si legge: “L’Erudito Sig. Abate D. Carlo Paolino non contento di avere per molti anni con indefessa cura e con universale profitto saggiamente istruita la gioventù nello studio delle lettere umane, tenendo fioritissima scuola delle medesime, ha voluto ancora prestarle diversi ajuti nel pubblicare qualche classico Scrittore con elegante ed esatta traduzione, e con commenti, che posson esser utili agli eruditi eziandio. Tale si è la sua versione in prosa delle Commedie di Terenzio, in cui vi si ritrovano le più scelte notizie, e la più illuminata critica nella spiegazione del testo e nelle note, onde debbiasi confessare essere il Sig. Paolino uno degl’insigni filologi di questo secolo; La qual cosa chiaramente apparirà a chiunque si dia a leggere la presente traduzione in prosa delle Opere del Poeta Venusiano, ove ammirasi la profonda intelligenza delle due lingue, il gusto fino e dilicato del traduttore, e la sua vasta cognizione dell’antichità.”
La critica successiva non poteva non tener conto che la traduzione mancava in alcuni punti della necessaria spontaneità.
Infatti Gaetano Curcio nel suo testo “Q. Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al XVIII” edito nel 1913 giudica mediocre la traduzione e lo stesso giudizio esprime Antonio Iurilli in “Orazio nella letteratura Italiana” edito nel 2004.
Entrambi gli autori, però, riconoscono al Paolino di aver approntato un copioso apparato di note erudite che costituisce una sorta di sintesi della filologia oraziana coeva a cui egli diede un notevole contributo.
“Egli aspirò alla lode di comporre un commento che contenesse la migliore illustrazione del testo, che allora fosse possibile”, osserva ancora Gaetano Curcio. Per raggiungere questo obiettivo egli si servì dell’analisi filologica e della sua notevolissima preparazione linguistica, ottenuta anche grazie all’insegnamento del suo maestro Antonio d’Aronne che, anche in quest’opera, ricorda con lusinghiere espressioni in ben nove note, che riportiamo nella pagina collegata.
Alla lettera ” All’Amico Lettore” segue “La vita d’Orazio ” scritta da Svetonio e tradotta dal Paolino e una seconda “Vita d”Orazio” scritta da Sanadon e ricavata dalle notizie che si attingono dalla lettura delle sue Opere e scadenzata per anni.
Prima dell’inizio del commento, il Paolino mette a disposizione dello studioso lettore un ulteriore ausilio: Un trattato sintetico della Metrica utilizzata da Orazio, scritto dal Sanadon.
Segue il testo Latino delle Opere d’Orazio con a fronte la traduzione del Paolino e le note sottostanti dei tre commentatori: Dacier Sanadon e il Paolino stesso.
Le note del Paolino, come già chiarito in precedenza, riguardano soprattutto questioni filologiche e critiche e s’inseriscono nel dibattito per appoggiare ora questo, ora quel commentatore o per esprimere un parere in dissenso con l’opinione di tutti.. Egli, in particolare, non tollera la gratuita mutilazione o la manipolazione del testo oraziano, così come aveva già fatto per quello di Terenzio, e reagisce con espressioni forti, che possono sembrare irriverenti nei confronti dei suoi interlocutori.
Anche questo suo atteggiamento egli spiega nella lettera “All’amico Lettore”: “Finalmente per compenso di una tal mia fatica, e sollecitudine, chieggo dal grato leggitore, che voglia usarmi un benigno compatimento se talvolta sono uscito dai limiti di una discreta moderazione in criticare i sentimenti, che intorno a certe espressioni e sensi delle cose han portato i già detti annotatori, ed altri interpreti del nostro Autore. Ciò non si è da me fatto, perché mi fossi reputato da più di tanti sommi, e valorosi uomini, de’quali mi credo anzi il minimo discepolo, e grandissimo ammiratore; ma per iscuotere i reggitori a deporre il pregiudizio, che potrebbero di essi avere, ed a considerare attentamente le cose, e le ragioni, che si adducono senza alcuna passione; e con mente chiara guardare la verità delle cose. Imperciocchè quanto più grandi critici, e letterati essi stati sono, tanto han maggiormente le cose filologiche con disprezzo riguardate, contentandosi dirne quel, che i più infimi grammatici ne han detto, e giudicando le costoro regole, o come infallibili, o come agli stessi autori Latini, onde le han formate, superiori. E’ nato adunque qualche loro abbaglio non già da alcuna loro insufficienza, ma da una certa negligenza, la quale ha fatto lor credere la filologia come cosa di poco momento, e da ragazzi, e non da uomo grande, e di valore. Ma io, il quale son persuaso, che la filologia è come il fondamento di tutte le scienze, senza la quale queste non possono nudrirsi , crescere, ed aumentarsi; ed il quale la credo come una filosofia, che si versa intorno alle voci, ed alle parole; dalla quale si passa a filosofare intorno alle cose; ho creduto cosa seria la ricerca delle vere etimologie, e significazione delle voci, anche perché si avvezzino i giovanetti a pensar bene, e dritto nelle cose scientifiche, e vi facciano grande profitto.”
Nella pagina collegata riportiamo alcune di queste note per capirne il tenore e la forza delle argomentazioni che il Paolino adopera per esprimere il suo pensiero.
Nel successivo Link presentiamo il Testo tradotto della Lettera ai Pisoni, ovvero Ars Poetica, corredata dalle note siglate dall’Autore, per mettere in grado il Lettore di esprimere un giudizio personale sulla tecnica traduttoria del Paolino, avvertendo, però, che l’italiano adoperato è quello in uso nella seconda metà del Settecento.
La vera etimologia e l’origine delle voci era, dunque, per il Paolino la competenza indispensabile per intendere il vero senso degli autori classici e per trasmettere il loro messaggio.
Anche se il suo revisore, Don Felice Cappello della Real Accademia delle Scienze, forse per evitare problemi per ottenere le autorizzazioni successive, afferma che : “questa è un’opera, che andrà per le mani de’provetti, e dotti, non già per quelle de’giovanetti, a’quali ogni buon maestro presenterà que’componimenti, che non posson esser nocivi all’età loro.”, non era proprio questo l’intendimento del Paolino che, invece, nella lettera all’Amico Lettore affermava: “ Mi lusingo adunque di aver con ciò molto giovamento recato alla studiosa gioventù, la quale non ha finora avuta una intera versione di Orazio, avendone quasi tutti troncato chi un pezzo, e chi un altro.”
La pubblicazione di un testo in quel tempo non era cosa semplice. L’autore doveva essere presentato al Cappellano Maggiore da una persona autorevole nell’ambito della materia oggetto del testo; il Cappellano Maggiore sottoponeva l’Opera al vaglio di un Revisore, in genere, un professore universitario di ruolo per esprimere un parere sulla conformità dell’Opera alle leggi dello Stato, sul rispetto dei buoni costumi e sul rispetto dei precetti della Religione Cattolica. L’imprimatur definitivo veniva rilasciato dalla Camera Reale di Santa Chiara.
Nel caso delle Opere di Orazio, il presentatore fu Don Felice Cappello, docente della Real Accademia delle Scienze e il Revisore che ricevette l’incarico di esaminare il Testo ed esprimere il proprio parere di conformità fu il Canonico Nicola Ignarra, docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Napoli. Nel Link si possono leggere i testi delle relative relazioni.
Quando il Paolino parla di studiosa gioventù, non effettua alcuna discriminazione di ceto. A tutti egli offre gli strumenti per comprendere nel miglior modo possibile le opere di Orazio: la traduzione, il testo latino a fronte, le notizie sulla vita dell’autore, una sintesi della metrica utilizzata nei versi, ma soprattutto una miriade di note dalle quali possono desumersi notizie di tutti i tipi: storiche, critiche, mitologiche, geografiche e, principalmente, filologiche.
Rispetto al lavoro fatto su Terenzio, quello svolto su Orazio cerca di essere più esaustivo e più attento alla critica europea, soprattutto francese, inglese e tedesca.
Infatti nel periodo che va dalla seconda metà del Seicento, fino agli inizi del Settecento, il primato degli studi oraziani era appannaggio dei francesi ( Dacier, Sanadon, Lefevre, Muret…) a cui seguirono gli inglesi (Baxter, Bentley, Cunningham, Pope…) e, infine, i tedeschi(Ramler, Lessing …).
I commentatori citati nelle sue note sono numerosissimi. Oltre ai principali: Dacier, Sanadon, Bentley e Cunningham, riferisce il pensiero di Baxter, Van der Beken, Lambino, Fabricius, Graevius, Acrone, Jacob van Cruyck, Lefevre, Marc-Antoine Muret, Partenio, Scaligero, Mazzocchi, Pierre Daniel Huet, Roberto Stefano, Torrenzio, Vossio, Siconio, Teodoro Marsilio, Nicolò Perotti, James Talbot, Daniel Heinsius e moltissimi altri.
La competenza acquisita nel campo umanistico derivava, dunque, da uno studio minuzioso sui più prestigiosi testi europei e dalla consultazione di codici antichi, messi a sua disposizione, prima dalla disponibilità del suo maestro e, successivamente, dalla biblioteca dell’Università, probabilmente sfruttando la sua personale amicizia con Gennaro Vico, figlio di Giambattista Vico, che sostituì il padre nella cattedra di Eloquenza latina, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia a partire dall’anno 1745 e dalle biblioteche dei nobili napoletani i cui rampolli erano suoi allievi. Senza questa catena di amicizie, una persona di origini modeste, com’era il Paolino, da sola, non avrebbe mai potuto accedere a quella mole di documenti che dimostra di conoscere bene.
Le sue origini modeste non furono, però, da lui mai rinnegate che, anzi ne andava orgoglioso; lo si può bene intendere da questo aneddoto che è stato tramandato e viene a lui riferito: Il padre contadino si recò a Napoli per far visita al figlio che, invece, era ospite delle famiglie nobili della città. Per presentarsi al cospetto del figlio, il povero contadino si fece procurare abiti adeguati all’ambiente nobiliare. Così acconciato, il figlio non lo volle ricevere. Lo ricevette, invece, con tutto il calore dell’amore filiale solo quando le vesti indossate furono quelle modeste che utilizzava nel suo paese d’origine.
Questa disponibilità verso tutti la trasmise attraverso il suo insegnamento e fu recepita in particolare dal suo nipote e allievoFrancesco Mastroti che continuerà la sua opera a favore della gioventù napoletana, introducendo nel Regno di Napoli ilmetodo di mutuo insegnamento, per estendere a tutti l’apprendimento dei primi rudimenti del leggere, dello scrivere e far di conto. Questo secondo personaggio, anch’egli originario di Papasidero, e anch’egli benemerito della cultura napoletana del secolo successivo, sarò l’oggetto della successiva ricerca.
Carlo Paolino terminò i suoi giorni a Napoli nel 1803, all’età di ottant’anni.